Letteraturocentrico fino al midollo, oltre ogni regime e frangente, il romanzo russo rinasce alla svolta del millennio come portale della memoria, consuntivo generazionale, personalissimo autoscatto. La prima opera narrativa di ampio respiro del poeta e saggista Sergej Gandlevskij, NRZB (a cura di Claudia Scandura, Elliot, pp. 156, € 17,50) – sigla che allude alla dicitura usata per i passaggi indecifrabili nei manoscritti e sta per nerazborcivoe (illeggibile) – porta la data del 2002, e si biforca su due piani autobiografici, incentrati sul personaggio «fittizio» di Lev Krivorotov: il ritratto del poeta da irregolare sullo sfondo della Mosca degli anni Settanta, in piena era brežneviana, e il presente dei tardi anni Novanta, con la maturità e l’ingresso nell’establishment.

In prima e terza persona
Sospeso ad arte tra letteralità e metaforismo (dopo l’insulto dell’ictus, il senso figurato del nome di Krivorotov – bocca storta – diventa reale), il doppio binario su cui è orchestrato il romanzo rispecchia le due vite concesse al protagonista. Al poeta debuttante, stretto tra l’amante-mentore Arina, eccentrica fino alla noia, la rivalità con l’amico Nikita, rampollo di sangue blu della nomenklatura, l’amore non corrisposto per Anja e la venerazione incondizionata per il «grande poeta» Cigrasov – contabile di professione – si sostituisce tre decenni dopo il poeta antologizzato.

Più che con i versi di suo pugno, però, Krivorotov si guadagna da vivere come esegeta del «classico vivente» Cigrasov, appunto, osannato dai circoli letterari e suo faro personale, che si è tolto la vita con un colpo di pistola a trentasette anni, con ciò stesso salendo di rango e accedendo al club dei poeti suicidi nel paese che da sempre dilapida i propri talenti migliori.

Quando fa scorrere all’indietro la stringa del tempo, nel I e nel III capitolo, Gandlevskij usa la terza persona, ricorrendo invece alla prima nel II e nel IV. L’attrito che si genera è smussato dagli oggetti che fanno da ponte tra le pagine: il revolver, la bici da uomo, la cartellina con il manoscritto chiusa con i laccetti, la foto di gruppo. L’attenzione al disegno narrativo è costante, e l’autore non rinuncia ad alcun espediente: mise en abyme, flash-back, angolazioni diverse da cui riproporre la stessa scena, frasi identiche che ritornano da un personaggio all’altro. Le esche disseminate nel romanzo vengono, intanto, costantemente disattese: stavamo quasi per convincerci che Cigrasov fosse Krivorotov stesso, quando siamo costretti a escluderlo.

Ritorno a Venezia
Lo stesso accade con il tema di Anja, che genera alcune delle pagine più vive del libro: amata senza speranza in gioventù, poi ricercata per il resto della vita («l’inclinazione per Anja prescinde dalla sua presenza»), appena prima di apprendere della sua prematura scomparsa, la donna idealizzata («una come Anja capita una volta in un milione di anni») viene tradita da Krivorotov con una prostituta che le somiglia, con drastico abbassamento di tono.
I luoghi si biforcano insieme alle dimensioni temporali della narrazione, i bivi dei corridoi e le topografie urbane clandestine ospitano duelli mancati, incontri fatali che si replicano, conversazioni surreali tra fisionomie che si sdoppiano («per poco non sono uscito di testa per via di quello sfruttatissimo espediente letterario per cui va pazza la letteratura russa, l’esistenza di un sosia!»).

La Venezia che aveva preso corpo onirico nell’incipit, con un armadio di kommunalka inaspettatamente (ma non troppo) spalancatosi sulle acque dei canali, ritorna come destinazione finale: indistinguibile da un miraggio moscovita (il protagonista avverte «l’odore inconfondibile di un negozio di pesce sovietico degli anni Cinquanta»), la città lagunare galleggia sul fondale del IV capitolo, e il presente del convegno slavistico si mescola con i brandelli del sogno premonitore di apertura.

Gandlevskij, che è in patria poeta accreditato, solido e sensibile, capace di un sentimentalismo caustico e sorvegliatissimo, si prende la briga di raccontare da romanziere il senso, la storia, l’ossessione della poesia, misurando la distanza che si genera tra sogno e rimpianto, tra nostalgia e scetticismo. Racconta la mediocrità che si insedia all’ombra del genio, e l’aspirazione al riconoscimento che deraglia nell’invidia per il talento o nel rancore sociale.

Per il giovane poeta dissidente Krivorotov il sogno del successo si fissa in una sequenza canonica: «l’arte, l’amore, i capolavori, un periodo di repressione, i capelli grigi, il frac, Stoccolma, il discorso di accettazione del Nobel». Per la generazione di Gandlevskij è Brodskij a incarnare quel sogno, e il poeta laureato (il «Dio in esilio») aleggia in molte pagine del romanzo, nominato direttamente o indirettamente, ma mai identificato con il «grande poeta» Cigrasov (l’evocazione del brodskiano Grido d’autunno dello sparviero da parte di quel personaggio serve anzi a chiarire che le due figure non sono sovrapponibili).

Iscritto alla linea del Dono di Nabokov o della Casa di Puškin di Bitov, opere che raccontano la scrittura come mestiere e chimera, quasi a ogni pagina il romanzo di Gandlevskij snocciola il nome di un poeta russo del passato: non è un panteon di numi intoccabili, ma una combriccola di congiunti prossimi, chiamati a chiosare con naturalezza la prosa della vita, indistinguibili dai personaggi del romanzo.

Se il tema vero è qui la poesia come ideale assoluto, la rappresentazione che ne viene data non prescinde dai suoi risvolti meno nobili. I giovani che si riuniscono negli scantinati della Mosca degli anni Settanta vivono di poesia, arrivano a memorizzare i numeri di telefono fissandoli in versi, ma di quell’entourage da lui stesso abitato Gandlevskij scoperchia le logiche più meschine, gli escamotage e le doppiezze, oltre agli slanci ideali. L’ingenuità e la cialtroneria, la vodka e il nonsense. Perfino il lager è motivo accessorio, quasi scenario di cartapesta buono a santificare il poeta del momento con l’aureola rituale di martire sovietico.

Vortici di libertà e sollievo
Poco importa che la sigla NRZB, che dà il titolo al romanzo, abbia un precedente (l’aveva usata per un suo libro di racconti del 1991 Aleksandr Žolkovskij – un critico, appunto), perché Gandlevskij sfrutta appieno la reticenza come strategia narrativa, e quando si tratta di dar conto dell’autentica grandezza poetica di Cigrasov riesce a comprovarla non tanto con i versi riportati dentro il romanzo – solo una manciata, e comunque chiazzati di (nrzb) – quanto facendola testimoniare dallo sconquasso prodotto dalla loro lettura: «tutte le parole sembrano vivere per la prima volta», «nella penultima strofa si sono accatastate masse di sentimenti, banchise di ghiaccio, che hanno prodotto una sovratensione del principio lirico, finché il peso del discorso non ha fatto saltare le cornici liriche, provocando un vortice di libertà e sollievo», «le parole con uno stridio si sono appiccicate insieme, come fossero dei magneti impazziti».

La traduzione di Claudia Scandura veleggia sicura verso la meta, districandosi con fluidità nella miriade di insidie narrative e criptocitazioni, più addomesticando che straniando, nel dipanare una matassa romanzesca raffinata, ammiccante, sorretta nelle sue pagine più felici da un senso tutto poetico del ritmo.