Il fatto che una nuova monografica venga dedicata all’esistenza e alla produzione di Lucio Fontana in una sede prestigiosa quanto il Met Breuer si costituisce, ovviamente, come una circostanza di rilievo. Da una parte infatti la scelta compiuta dal museo newyorkese offre la prova ennesima dell’interesse attivo per una certa radicalità espressiva dell’arte italiana del secondo Novecento, in sintonia con l’attenzione più ampia – curatoriale e, parimenti, mercantile – diffusasi negli ultimi anni sulla scena internazionale: risale ad appena un anno fa l’approfondimento espositivo su Ettore Sottsass allestito negli stessi spazi, con buon riscontro di pubblico e di critica, nel rispetto di ambizioni altrettanto esaustive. Dall’altra, la decisione di celebrare Fontana – con uno sguardo all’arco lungo della sua attività – nelle sale bianchissime di uno dei più straordinari edifici moderni di Manhattan conferma il rapporto peculiare fra l’artista e la città, avviatosi con la prova smagliante costituita nel 1961 dalla personale presso la Galleria Martha Jackson (evento dal titolo ironicamente ‘turistico’ di Ten Paintings of Venice), e proseguito – anche dopo la morte – in occasioni intonate a un’eletta ufficialità, sul tipo della retrospettiva organizzata al Guggenheim nel ’77 o della mostra recente messa insieme una decina di anni fa da Luca Massimo Barbero sempre negli ambienti progettati da Frank Lloyd Wright.
Oggi, il Modern and Contemporary Art Department del Met, diretto da Sheena Wagstaff, sceglie di affidare a Iria Candela, deputata alle collezioni latino-americane, un’ampia riflessione attorno all’operare di uno dei grandi nomi del panorama postbellico occidentale; e la decisione ribatte sull’idea ‘forte’ che Fontana, discendente da una dinastia italiana di artisti (il padre fu scultore, il nonno pittore), nato però in Argentina a Rosario di Santa Fe, debba a quest’ultimo mondo più di quanto finora si sia voluto concedere. D’altronde a seguito di un’educazione milanese trascorsa alla fine degli anni venti sotto la guida di Adolfo Wildt – formazione tradottasi poi, nel corso del quarto decennio del secolo, in un’attività non irrilevante nel quadro delle commissioni pubbliche del bruno governo littorio – la parabola esistenziale dell’uomo si sarebbe riambientata in Argentina dal 1940, in concomitanza con lo sgretolarsi tragico della dittatura fascista e con il tempo dolorosissimo toccato in sorte a una penisola colpita dalle vicende inesorabili del conflitto mondiale.
A tale fase – prolungatasi per sette anni, prima del nuovo, definitivo rientro in Italia – sono dedicati due contributi in catalogo, utili e informati, quelli appunto a firma della Candela e di Andrea Giunta, i quali con sensibilità misurano le esperienze creative e didattiche vissute da Fontana a Buenos Aires (dove venne fondata nel 1946 la scuola di Altamira per il libero insegnamento delle arti), nel contesto del fermento culturale e del delicato frangente politico conosciuti allora dall’intellettualità residente nella capitale argentina. È con figure come quelle raccolte nel gruppo Arte Concreto-Invención o confluite nella corrente ‘precettista’ e con i colleghi riunitisi nel movimento Madí (soprattutto con Gyula Kosice) che lo scultore intesse un dialogo proficuo, rinnovando l’anelito sperimentale dei suoi lavori meneghini (ad esempio gli esili arabeschi allineati nel 1935 alla Galleria del Milione) grazie al confronto con l’estremizzazione astrattista proposta da testi come il numero unico della rivista «Arturo» uscito nel 1944 (animato da un coro cosmopolita di voci diverse e illustrato da opere di Mondrian e Kandinsky); ed è anche in questa dialettica che nasce un proclama della fatta del Manifesto Blanco, scaturito dalla collaborazione di Fontana (pure assente dalla lista dei firmatari) con gli allievi di Altamira, vera e propria bibbia per la predicazione di una prospettiva ‘spazialista’ a partire dal ritorno dell’artista a Milano.
Si tratta di un punto di vista ‘globale’ (e in questo senso attuale) su un autore la cui esperienza è incardinata – per biografia, riferimenti, contatti – nel canone europeo del XX secolo; e seguendo una simile démarche lo stesso auspicio formulato da Fontana, fra dichiarazioni e titoli, in favore di una stagione neobarocca potrebbe ricollegarsi efficacemente, oltre che all’infatuazione seicentista di personalità sul genere di Giuseppe Ungaretti, alla fortuna sudamericana dell’opera di Eugenio D’Ors, autore nel ’35 di un celebre pamphlet dedicato a quell’estetica peculiare, letta nelle forme di categoria sovrastorica.
Alla luce di una chiave interpretativa a tal punto proficua si sarebbero potute convocare a New York, a mo’ di confronto, le opere di Tomás Maldonado, Diyi Laañ o Raúl Lozza, che, illustrate in catalogo, offrono paragoni chiarificatori col percorso di Fontana: Candela sceglie piuttosto di scenografare uno squisito one-man show, rinunciando perfino ad accostamenti – magari manualistici ma non per questo meno eloquenti (almeno se passati al vaglio di un giusto discrimine critico) – pescati nei repertori di maestri nobili o compagni di viaggio, come Arturo Martini, Giacomo Balla o Yves Klein. Il linguaggio di Fontana vive così di una purezza da laboratorio, magnificando l’effetto auratico delle creazioni presentate al Breuer grazie a prestiti notevoli; un esito solo parzialmente attenuato dalla seriazione connaturata all’oeuvre dello scultore che – pur nell’inesausto rinnovamento della propria parlata, nell’indefessa verifica sul piano delle tecniche e della tecnologia contemporanea – indulse a un’iterazione siglata di concetti e idee.
La mostra (fino al 14 aprile) si apre pertanto sulle eclatanti ceramiche degli anni trenta-quaranta, dai busti (ieratico quello di Teresita, d’oro il volto della giovane del ’31) alle corrose nature morte sottomarine, concepite per la manifattura Mazzotti in collaborazione con Tullio d’Albisola. Con la parziale eccezione del celeste Atleta in attesa, manca ogni riferimento alla dimensione ‘colossale’ degli impegni sostenuti per le committenze ufficiali riconosciute all’artista da organi e istituzioni mussoliniane (ad esempio l’istallazione per la Quarta Triennale a Milano): tuttavia funge efficacemente da snodo, in direzione delle prove successive, la Scultura spaziale del ’47 (Milano, Fondazione Fontana), un varco di pietre e ciottoli, soglia ideale aperta su un rinnovato universo di forme. Segue infatti un’infilata di sale, dedicate la prima ai Buchi, la seconda ai Concetti spaziali tracciati col ricorso a scarti di vetro provvisti dalla Fucina degli Angeli e dalla ditta Venini, la terza consacrata interamente ai Tagli: nella sequenza il coup de théâtre più riuscito è però quello della penultima stanza che nell’accumulo esclusivo di monocromi immacolati, incisi dal ricorso compulsivo al coltello Stanley, rievoca l’Ambiente spaziale bianco progettato da Fontana assieme a Carlo Scarpa per la Biennale di Venezia del ’66. Del resto, l’allestimento – dopo la ‘stazione’ sensazionale costituita dal Concetto spaziale, New York 10 (in colloquio esplicito con Burri) – termina nella riproposizione, fra il Met Breuer, il Met sulla Quinta e il Museo del Barrio, di alcuni altri Ambienti, originariamente progettati per eventi come la Tredicesima Triennale milanese: si compie così perfettamente il disegno teleologico di una selezione intesa a evidenziare il ruolo progressivo, di precursore svolto dallo scultore. Una scelta che – escludendo tappe importanti della sua attività, come l’abbondante, continuativa produzione di ceramiche a tematica religiosa o i numerosi interventi monumentali in cimiteri e chiese (in primis il progetto mai realizzato per la Quinta Porta del Duomo di Milano) – sottolinea idealmente la ‘funzione Fontana’ per l’epoca a venire, piegandone gli ottenimenti in direzione del minimal e del concettuale.