«Tutta la vita di Florenskij è un’appassionata ricerca della verità e una totale dedizione ad essa, ma una verità non come adaequatio, come formale corrispondenza logica tra fenomeno e parola, ma come adesione profonda alle concrete nervature del reale, al senso più profondo della vita e della storia, come fedeltà alla propria persuasione, fino alla “sequela” della Croce». Questo passo è tratto dall’introduzione che Natalino Valentini redasse per l’edizione mondadoriana di Non dimenticatemi, contenente le lettere che Pavel A. Florenskij scrisse dal gulag delle isole Solovki, definite dallo slavista Vittorio Strada «un simbolo della Russia cristiana e libera caduta in una cattività sanguinaria ed empia», dove il pensatore russo venne confinato negli ultimi anni di vita, prima di essere giustiziato in un luogo imprecisato presso Leningrado l’8 dicembre 1937. Questa attenzione per la verità, non disgiunta dal concetto di santità, porterà Florenskij, sorta di intellettuale a tutto tondo di stampo rinascimentale, capace di conciliare genialmente interessi di natura umanistica e scientifica (fu definito il «Leonardo della Russia» e il «Pascal russo»), a studiare teologia al fine di diventare presbitero ortodosso in quella che, parafrasando Nadezda Mandel’štam, si potrebbe chiamare «l’epoca dei lupi».
Filosofo della scienza, matematico, fisico, epistemologo, ingegnere elettrotecnico, teologo, teorico dell’arte e di filosofia del linguaggio, studioso di estetica, simbologia, semiotica, nonché amico del simbolista Andrej Belyi (figlio di uno dei suoi mentori, l’insigne matematico Nicolaj V. Bugaev) e del filosofo e teologo Sergej Bulgakov, Florenskij perseguì durante tutta la sua breve esistenza, con un rigore e una coerenza ammirevoli, i suoi variegati studi tesi a conciliare la «metafisica concreta» con le scoperte di carattere scientifico (citiamo solo, per limitarci agli anni di confino, l’estrazione dello iodio dalle alghe marine, il liquido anticongelante o le ricerche sul gelo perpetuo), in aperta contrapposizione con la Weltanschauung imperante e con le direttive del regime sovietico che avversò l’operato di quel «biascica-litanie», di quel «pope oscurantista», salvo sfruttare a più riprese le sue competenze in campo tecnico. Non è un caso che il suo capolavoro, edito nel 1914, si intitolasse La colonna e il fondamento della verità, pubblicato in Italia da Rusconi nel 1974, prima che Adelphi nel ’77 facesse conoscere, a cura di Elémire Zolla, il saggio sull’iconostasi Le porte regali, recentemente riproposto da Marsilio.
È logico che, con simili presupposti, fosse difficile per lo studioso russo identificarsi in quello stilita dello stile che fu Gustave Flaubert, di cui ammirava in particolar modo La Tentation de Saint Antoine, considerato alla stregua di un poema in prosa. Escono ora a sorpresa, proposte in prima traduzione mondiale fuori dalla Russia, le riflessioni critiche che Florenskij allestì nel 1905 con il titolo Antonio del romanzo e Antonio della tradizione Commento a «La tentazione di Sant’Antonio» di G. Flaubert (Edizioni degli Animali, pp. 148, € 12,00), a cura di Natalino Valentini, con ottima traduzione di Claudia Zonghetti. Flaubert attribuì al romanzo su Sant’Antonio un posto di rilievo nella sua produzione, tanto da essere letteralmente ossessionato sia dalla tematica sia dalla forma definitiva da dare al testo. Rimasto stregato durante un viaggio effettuato nel 1845 a Genova dal dipinto Le tentazioni di Sant’Antonio abate, attribuito a Pieter Bruegel il Giovane, soprannominato Bruegel degli Inferi per i suoi motivi visionari e apocalittici, lo scrittore normanno si misurò per circa trent’anni con tale soggetto, concependone tre differenti versioni, risalenti rispettivamente agli anni 1849, 1856 e 1874. È noto l’aneddoto secondo il quale l’autore lesse ai suoi amici Louis Bouilhet e Maxime Du Camp, in quattro snervanti sedute di otto ore al giorno, la prima redazione del romanzo, suscitando perplessità e sconcerto. Il colpo per Flaubert, convinto di avere scritto il suo testo più rappresentativo, fu durissimo.
Ma è soprattutto sul versante stilistico che bisogna considerare quella che Zola definì la sua «opera prediletta»: il metodo di lavoro di Flaubert, la sua morbosa dedizione al mot juste, ne facevano una sorta di amanuense, teso a mettere in luce le caleidoscopiche rifrazioni di una realtà passibile di deciframento solo attraverso l’approccio lenticolare del suo logos. Ed è proprio questo che Florenskij, assertore di un «realismo ontologico», rimprovera all’autore normanno, un nichilismo derivante da un estetismo quanto mai lontano dalle occorrenze della vita reale: «Essendo dunque, da un lato, estetismo assoluto, la religione di Flaubert è dall’altro assoluto nichilismo. Al centro della vita, suo principio inconfutabile, c’è l’illusione estetica; ma se l’esteticità dell’illusione esige il culto, l’illusorietà dell’estetica non può non suscitare scherno». Quasi un controcanto rispetto alla concezione gnoseologica di Foucault: «Con la Tentazione Flaubert ha scritto la prima opera letteraria che abbia la sua collocazione specifica nel solo spazio dei libri; in seguito, Il libro di Mallarmé diventerà possibile, poi Joyce, Roussel, Kafka, Pound, Borges. La biblioteca è in fiamme».
Questa singolare pagina di ermeneutica florenskijana si sofferma a rilevare come il romanziere francese, nonostante il meticoloso lavoro di documentazione intrapreso intorno alla vita dell’anacoreta nel deserto della Tebaide (agiografie, trattati storici, testi religiosi, di patristica e teologia consultati al riguardo), lo stesso che lo portò a spulciare un numero impressionante di titoli relativi alle discipline più disparate per la stesura dell’antiromanzo sulla bêtise umana Bouvard et Pécuchet, sia passibile di inverosimiglianza in più di un’occorrenza. Florenskij mette a confronto il testo di Flaubert, denotante «il progressivo venir meno (…) della fedeltà storica», con alcuni lavori di patristica, a cominciare dalla Vita di Antonio scritta da Atanasio, vescovo di Alessandria e padre della Chiesa d’Oriente, verso cui il pensatore russo mostra particolare empatia.
Florenskij ricorda che «la plausibilità dell’allucinazione è sospesa, in quanto Flaubert obbliga Antonio a sapere ciò che non poteva conoscere. Le idee che videro la luce dopo il Rinascimento, le idee di Bruno, Campanella, Copernico e Galileo, una serie di scoperte geografiche e astronomiche, il sistema di Newton, e ancora le speculazioni di Spinoza, Hume, Kant e dei positivisti che si insinuano in questa parte della Tentazione sono troppo lontane dall’antichità classica perché Antonio possa esperirle anche solo in un’allucinazione». E ancora: «Oltre alla scarsa probabilità che un eremita analfabeta che aveva passato la vita nel deserto conoscesse le tante eresie riesumate da Flaubert in polverosi in-folio, andrà notata la straordinaria fermezza di Antonio nell’ortodossia. In un’epoca in cui, tra l’altro, il sistema dei dogmi non era stato ancora adeguatamente elaborato, persino agli eruditi Padri della Chiesa capitava di esprimere opinioni che poi venivano tacciate di eresia. Non è affatto naturale, dunque, aspettarsi tanta consapevole competenza teologica da un eremita vissuto in solitudine per tutta la vita».
La figura del discepolo Ilarione con le sue continue metamorfosi costituisce «la scepsi che non ha altro fine se non distruggere gli interrogativi dell’umanità sull’ideale, è il positivismo, è il mefistofelismo come volgarità universale che tutto corrompe». Il perfezionismo di Flaubert, quella sua morbosa identificazione con il soggetto trattato che gli farà scrivere in una lettera a Louise Colet di sentirsi «l’homme-plume» (non asserirà d’altronde di essere Madame Bovary?), non poteva conquistare Florenskij, affascinato altresì dalla tematica monastica della Tentazione dopo l’avvio degli studi storico-religiosi presso l’Accademia Teologica di Mosca e la frequentazione del vescovo starec Antonij Florensov nel monastero Donskoj. L’estetismo flaubertiano è considerato una dilatation du néant, una hybris contrapposta al pauperismo di Antonio, disciplina priva di «senso della realtà, e non solo della realtà del mondo, ma anche della propria». A questo punto l’affondo non poteva essere più letale: «L’Antonio di Flaubert non ha la forza della santità e della grazia che accorrevano in soccorso degli antichi eremiti; in lui c’è soltanto impotenza e pesantezza di spirito; non c’è il Divino, ma solo l’umano, troppo umano». Ecco, servito anche Nietzsche.