Sull’andamento dell’informazione è difficile ingannarsi. Ci sono temi la cui durata va al di là dell’accadimento, e quindi della loro «attualità», e altri che si eclissano nell’arco di una giornata. Tra le ragioni che sottostanno alla scelta del lancio di una notizia in prima pagina di un quotidiano, o di apertura di un telegiornale, c’è sicuramente una visione del problema che va oltre la sua occasionalità. Dell’occupazione, o del clima, si parla indipendentemente dalle morti sul lavoro, così come non sono le piogge diluviali e le inondazioni a esaurire l’interesse dei media sui problemi ambientali e sul rapporto tra uomo e natura. Al fondo, si può dire che a dare «attualità» a un fatto piuttosto che all’altro è ancora la sua rilevanza politica, cioè quello che di «inattuale» vi sta dietro. Se ne deve dedurre che la violenza contro le donne, anche nei suoi aspetti «manifesti» come stupri e femminicidi, stenta a uscire dalla collocazione nei «casi» di cronaca nera perché continua a essere considerata materia «non politica» ed è definita verbalmente come un «fenomeno strutturale».

Ne sono un esempio inequivocabile le drammatiche vicende che in questo ultimo scorcio d’estate hanno tenuto accesa l’attenzione sugli stupri di gruppo di Palermo e Caivano, passate rapidamente da fatti gravissimi legati a una ideologia patriarcale ancora dominante nel nostro paese, nel senso comune come nella cultura alta, a una politica governativa di estrema durezza, fatta di controllo, criminalizzazione spinta fino a toccare soggetti minorenni, e carcerazione.

Quando, in provincia di Trapani, è stata uccisa Marisa Leo per mano del suo ex-compagno, dei femminicidi che lo avevano preceduto e che lo avrebbero purtroppo seguito, si era già persa traccia, nonostante che lo stesso Presidente della Repubblica vi avesse fatto riferimento come di una «intollerabile barbarie».

È impossibile a questo punto non porsi una domanda: perché la violenza che ha a che fare direttamente con il corpo delle donne – dallo stupro al femminicidio, ai maltrattamenti, ai pregiudizi sessisti, alle varie forme di vittimizzazione che le donne subiscono – si affaccia e poi scompare rapidamente dietro un nominalismo generico, che la descrive come «fenomeno strutturale», «patriarcato», cultura maschilista? Il fatto che gli stupri di gruppo a Palermo e a Caivano siano stati opera di minorenni, e in alcuni casi anche agiti su vittime delle loro età, non poteva non aprire porte di casa, interni di famiglia, portando allo scoperto figure di dubbia affidabilità genitoriale, ma anche spiragli inquietanti sulla sessualità infantile, sull’ambiguità delle relazioni intime, tra adulti di un sesso e dell’altro, tra adulti e bambini.

La storia delle due sorelle violentate per anni a Monreale dal nonno e dallo zio, coperta dalla complicità dei genitori, avrebbe potuto dire molto da questo punto di vista e sicuramente non è un caso che sia stata toccata solo marginalmente.

Di fronte a un dominio come quello maschile, profondamente radicato e confuso con le esperienze più intime, come la sessualità e la maternità, i legami di coppia e gli affetti familiari, la cura e le prime sollecitazioni sessuali nell’infanzia, la crescita in ambiti domestici dove amore e violenza si danno in un intreccio perverso e difficile da sbrogliare per il bambino che vi assiste nel momento della sua maggiore dipendenza, il femminismo stesso ha avuto difficoltà a portare analisi e pratiche sulle contraddizioni meno «dicibili».

Se non fossero prevalse da parte del governo in carica logiche volte a «bonificare» con il controllo poliziesco e la criminalizzazione i disastri molteplici e presenti oggi alla coscienza storica di un sistema sessista, prima ancora che classista e capitalista, poteva essere proprio la convergenza di fattori diversi, non più confinabili nel privato e nel pubblico, legati agli ambiti domestici quanto alla scuola, alle condizioni sociali, economiche e culturali del contesto in cui viviamo, a dare alla riflessione e al dibattito di questo inquietante scorcio di fine estate l’ampiezza e la complessità che merita.

Del resto, come aspettarsi che un «rimosso» millenario come il dominio di un sesso sull’altro arrivi alla coscienza storica, quando le teorie e pratiche di oltre un secolo di femminismo sono ignorate e, in vistosa contraddizione con i cambiamenti di cultura e costume già avvenuti, arrivano le dichiarazioni delle maggiori cariche istituzionali che rimettono in primo piano i «valori tradizionali» della famiglia, del ruolo sacrificale, donativo delle donne mogli e madri, del fine procreativo della sessualità.

Lo ha fatto Giorgia Meloni nel dialogo con Sallusti in apertura del suo nuovo libro. E anche il ministro della giustizia Carlo Nordio in una lettera al Messaggero del 12 settembre. Per Nordio la violenza maschile contro le donne è una malattia come altre, calcolabile allo stesso modo su grandi numeri. Colpisce che proprio un uomo che maneggia diritti e giustizia consideri retaggio «naturale» il residuo «belluino» del maschio, di fronte al quale alle donne non rimarrebbe che «stare in agguato». Ma neppure queste insospettabili contraddizioni, che vengono da esponenti di massimo rilievo del governo in carica, bastano a dare continuità al rapporto tra i sessi, in quanto atto fondativo della politica stessa.