Ha un nome la whistleblower che ha fornito al Wall Street Journal decine di migliaia di pagine di ricerche e documenti interni di Facebook. Si tratta di Frances Haugen, 37enne, un’ingegnera ed ex product manager del social media, che lavorava proprio al dipartimento addetto alle questioni di integrità civica dell’azienda, responsabile di garantire la correttezza del processo democratico e di contrastare la disinformazione. Dipartimento chiuso proprio poche settimane dopo le elezioni presidenziali del 2020, un allentamento dei controlli sui contenuti che ha finito per favorire la diffusione dei messaggi sui presunti brogli.

«IN PRATICA (a Facebook) hanno detto: ’Oh bene, abbiamo superato le elezioni. Non ci sono state rivolte. Ora possiamo sbarazzarci dell’integrità civica’ – ha dichiarato Haugen durante la trasmissione tv 60 Minutes andata in onda domenica sera – E un paio di mesi dopo abbiamo avuto la rivolta. Quando si sono sbarazzati di Integrità civica, è stato il momento in cui mi sono detta ’non mi fido che siano veramente disposti a investire in ciò che serve per impedire a Facebook di essere pericoloso’ ».
I documenti divulgati da Haugen hanno scatenato una tempesta e persino portato il Senato a interrogare un dirigente di Facebook sugli effetti della piattaforma sugli utenti più giovani.

Circa un mese fa, Haugen aveva presentato almeno otto denunce alla Securities and Exchange Commission, l’organo di vigilanza dei mercati finanziari che può accusare le aziende di ingannare gli investitori, e al Congresso – che sta indagando sul ruolo della piattaforma nella rivolta al Campidoglio – sostenendo che la società stesse nascondendo delle informazioni importanti agli investitori e al pubblico.

POI HA ANCHE CONDIVISO i documenti con il Wall Street Journal, che ha pubblicato un’indagine in più parti in cui si prova che Facebook era a conoscenza dei problemi con le sue app, compresi gli effetti negativi della disinformazione, in particolare sui giovani. Durante 60 Minutes Haugen ha riaffermato che la società è del tutto consapevole che le sue piattaforme sono utilizzate per diffondere odio, violenza e disinformazione e che cerca di nasconderne le prove, in quanto mette «il profitto al di sopra della sicurezza» degli utenti. Facebook ha respinto fermamente tutte le accuse, e il suo vicepresidente degli affari globali, Nick Clegg, ha definito «ridicolo» attribuire la colpa per la rivolta del 6 gennaio a Facebook, aggiungendo che la società non potrà mai essere in grado di controllare tutti i contenuti del proprio sito, al limite potrebbe essere aperta a ulteriori normative.
La whistleblower oggi verrà ascoltata dalla Commissione del Commercio del Senato Usa. E ieri si è messo in moto anche il Parlamento europeo: due deputate, Christel Aschaldemose e Alexandra Geese hanno sollecitato un’indagine sulle rivelazioni e un giro di vite sulla regolamentazione delle compagnie high-tech: «Dobbiamo regolamentare l’intero sistema – ha osservato Geese – e il modello di business che favorisce la disinformazione e la violenza rispetto ai fatti, e consente la loro rapida diffusione».