Una multa pari a due settimane di guadagni, il pagamento del parcheggio durante lo shopping. Nei risultati trimestrali comunicati mercoledì Facebook ha detto di avere accantonato tra tre e cinque miliardi di dollari in previsione di una possibile multa che la Federal Trade Commission (Ftc) americana potrebbe comminare all’unicorno creato da Mark Zuckerberg per la violazione di un accordo del 2011 sulla privacy violata nello scandalo Cambridge Analytica. Questa società ha usato i dati di 87 milioni di utenti Facebook nella campagna elettorale di Donald Trump nel 2016 e nell’interesse dei suoi sostenitori: Steve Bannon che ha partecipato alla fondazione di Cambridge Analytica, e il miliardario Robert Mercer.

PER FACEBOOK una multa di 5 miliardi è una frazione dei 56 miliardi di dollari di fatturato annuo. L’azienda possiede 40 miliardi di dollari di riserve liquide, le azioni sono schizzate di oltre il sette per cento dopo l’annuncio, gli utenti siano aumentati nell’ultimo anno dell’otto per cento. Oggi sono almeno 1,56 miliardi di persone che usano la piattaforma digitale nel mondo. E tuttavia questa è la prima ammissione concreta, dopo i mea culpa di Zuckerberg, che qualcosa di davvero importante è accaduto nel biennio del techlash, la risacca dopo l’ondata di tecno-entusiasmo per il capitalismo digitale e i suoi prodotti di consumo. Lo è dal punto di vista economico: la multa potrebbe contrarre le riserve di liquidità di Facebook fino all’11%. Questa sarebbe la prima manifestazione concreta di un potere di controllo da parte della Ftc. L’opinione pubblica americana è stata colpita dall’azione della Commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager che, nei cinque anni del suo mandato nella Commissione Europea, ha multato Google per un totale di otto miliardi di dollari a causa di violazioni della privacy e delle norme anti-trust. Negli Usa nessuno, a cominciare da Obama, ha adottato questo atteggiamento aggressivo sia pure ancora in mancanza di un quadro giuridico sovranazionale uniforme. L’ultima multa comminata dalla Ftc a un gigante della Silicon Valley risale addirittura al 2012 quando chiese a Google 22,5 milioni di dollari per avere travisato le impostazioni sulla privacy del browser Safari della Apple. Nulla di rilevante, rispetto alle dimensioni colossali raggiunte nel frattempo dal nuovo capitalismo. In questa ottica, anche i cinque miliardi potenziali della multa sono una carezza.

RESTANDO SUL TERRENO di una regolazione liberale del mercato, molto più significativo sarebbe una norma che sottoponesse al controllo pubblico la condivisione dei dati con i partner commerciali o informasse gli utenti sul modo in cui sono stati raccolti i dati, anche sull’esempio del Regolamento generale sulla protezione dei dati adottato il 25 maggio 2018 in Europa.

MA NEMMENO questi accorgimenti, sia pure necessari, modificherebbero la reale natura del capitalismo di piattaforma definito da Shoshana Zuboff, una delle più importanti ricercatrici al mondo su questo fenomeno, come il «capitalismo della sorveglianza». Nell’omonimo libro, pubblicato in inglese da Profile (pp.691, 33 euro), Zuboff sostiene che la sorveglianza non è più limitata a singole aziende internet. Si è diffusa in un’ampia gamma di prodotti, servizi e settori economici, tra cui assicurazioni, vendita al dettaglio, sanità, finanza, intrattenimento, istruzione, trasporti, dando vita a nuovi ecosistemi di fornitori, produttori, clienti e operatori del mercato. Quasi ogni prodotto o servizio che inizia con la parola «intelligente» o «personalizzato», o ogni «assistente digitale», è un’interfaccia della catena del valore che alimenta il flusso di dati comportamentali usati per prevedere il nostro comportamento in un’economia della sorveglianza. Per spezzare questa egemonia è importante il discorso sulla tassazione e la destinazione dei proventi per finanziare un reddito di base digitale. Ma è decisivo stabilire, come suggerisce Zuboff, la proprietà sociale non solo dei dati che produciamo ma soprattutto del plusvalore da noi prodotto ad uso esclusivo di Zuckerberg e amici. Sono dunque necessarie la privacy, l’anti-trust, la regolazione delle piattaforme in «public utility» come un tempo lo sono state le ferrovie, ad esempio, l’auto-organizzazione dei lavoratori digitali. Ma alla base ci dev’essere il riconoscimento del plusvalore prodotto dalla nostra forza lavoro. Dare il nome alla cosa serve anche a capire, veramente, cosa è stato e cosa diventerà Facebook.

***La «talpa» Wylie: «Il castello di carte crollerà». «Hai cercato di nascondere la tua condotta incompetente. Pensavi di poter semplicemente ignorare la legge. Ma non puoi. Il tuo castello di carte crollerà». Lo ha scritto su twitter Christopher Wylie, la «talpa» che ha fatto esplodere lo scandalo Cambridge Analytica rilasciando interviste al Guardian/Observer e al New York Times nel marzo 2018. Lo specialista che ha lavorato per Steve Bannon e per Alexander Nix nel data mining, data brokerage e analisi dei dati finalizzati alle campagne elettorali, tra cui quella di Trump nel 2016, ha così commentato la notizia dell’accantonamento fino a 5 miliardi di dollari da parte di Facebook in vista di una possibile multa della Federal Trade Commission (Ftc). Wylie ha ringraziato il deputato democratico David Cicilline. Quest’ultimo sostiene che «se non agirà la Ftc, dovrà farlo il Congresso».

***Si muovono anche Canada e Irlanda. Il garante della privacy canadese Daniel Therrien intende portare Facebook in tribunale per cambiare le sue politiche sui dati. La notizia è arrivata all’indomani della diffusione di una trimestrale in cui gli utili hanno subito un calo annuo del 51% a 2,43 miliardi di dollari in vista di un possibile multa della Federal Trade Commission americana. «Il suo rifiuto di agire responsabilmente è profondamente preoccupante dato il vasto ammontare di informazioni personali che gli utenti gli hanno affidato» ha spiegato Therrien. Nel frattempo i regolatori irlandesi hanno aperto una nuova inchiesta, l’undicesima, su Facebook per avere conservato, senza crittarle, le password di «centinaia di milioni» di account, visibili come semplice testo a decine di migliaia di dipendenti del gruppo.