Ieri, quando l’ultimo colono di Evyatar, illegale anche per la legge israeliana, era intento a caricare la valigia sull’auto per lasciare questo avamposto coloniale sorto in Cisgiordania a ridosso del villaggio palestinese di Beita, un’agenzia di stampa italiana ha scritto in suo lancio: «…Secondo le organizzazioni dei coloni e politici di destra l’insediamento di Evyatar è nato su terra che non appartiene ai palestinesi. Gli abitanti dei vicini villaggi palestinesi di Beita e Yatma sostengono invece che appartiene a loro…». Un presentare le posizioni degli uni e degli altri in apparenza neutrale ma che nasconde al lettore alcuni dati fondamentali. La Cisgiordania palestinese non fa parte dello Stato di Israele ma è un territorio occupato militarmente e le risoluzioni internazionali, votate anche da Usa ed Europa, vietano categoricamente alle autorità israeliane di insediarvi popolazione civile. Perciò poco importa se Evyatar sia stato costruito su terre «private» o «demaniali», semplicemente non può essere lì, è illegale. Per fortuna i coloni israeliani sono sinceri e dicono con naturalezza e senza nascondersi che la vicenda di Evyatar e lo scontro con gli abitanti di Beita non sono una «disputa immobiliare» ma rappresentano un progetto politico e religioso che va avanti da decenni.

La signora Ayelet Schlissel, colona che ha vissuto per settimane nell’avamposto, intervistata dalla tv pubblica israeliana Kan mentre si apprestava ad andare via, ha spiegato: «Non siamo venuti qui per le proprietà immobiliari ma per colonizzare Eretz Israel (la biblica Terra d’Israele, ndr). Parteciperemo ad ogni missione volta ad insediare la terra, sia ad Evyatar che in qualsiasi altro luogo della Giudea e della Samaria (i nomi biblici della Cisgiordania, ndr)». E altrettanto esplicito è stato il capo del Consiglio delle colonie della Samaria, Yossi Dagan: «Partiamo oggi con dolore ma a testa alta, perché sappiamo che torneremo a Evyatar molto presto». Dagan ha più di un motivo per essere ottimista.

L’accordo firmato dai coloni con il governo del premier Bennett, noto sostenitore della colonizzazione, stabilisce che l’avamposto non sarà smantellato. Piuttosto i suoi caravan ospiteranno una piccola base dell’esercito in attesa che, entro sei mesi, le autorità militari stabiliscano lo «status legale dei terreni». Una verifica che i coloni, ne sono certi, si concluderà a loro favore. Perciò si preparano a inaugurare un collegio rabbinico a Evyatar non appena sarà possibile. Si va verso la legalizzazione, da parte del governo, dell’avamposto, ma a piccoli passi. L’hanno capito tutti, a cominciare dai palestinesi di Beita e del villaggio vicino di Yatma, alle pendici del Monte Sabih, che non si sono lasciati ingannare dalla partenza di coloni che torneranno presto. Anche ieri hanno rilanciato le loro proteste – una sessantina i feriti dal fuoco dei soldati israeliani, quattro dei quali da proiettili di veri, ha riferito la Mezzaluna rossa – che sino ad oggi sono costate la vita a cinque manifestanti, due dei quali appena quindicenni. Dimostrazioni palestinesi contro le colonie si sono svolte in altre località della Cisgiordania, in particolare a Kufr Qaddum.

Ieri c’è stata anche la protesta di Peace Now, la Ong pacifista israeliana che monitora l’espansione e della costruzione delle colonie. I suoi attivisti hanno affisso cartelli fuori dalle case dei ministri della «sinistra» Nizan Horowitz (Meretz) e Meirav Michaeli (Labour) che, denunciano, tacciono sulle politiche nei territori palestinesi occupati del governo Bennett, dominato dalla destra. «A differenza della destra che nel governo agisce per conto del suo pubblico, questi due ministri hanno voltato le spalle al loro elettorato e hanno sdoganato gli avamposti (coloniali)», era scritto su un cartello. Tace più di tutti Mansour Abbas, leader del partito arabo islamista Raam, parte della maggioranza, che raramente apre bocca su quanto accade in Cisgiordania e Gaza.