Musica e non solo. Perché Evan Greer è tante cose insieme. Attivista trans, vice presidente della più radicale associazione americana per i diritti digitali – Fight For The Future -, intellettuale, militante, giornalista e cantautore. Tante parti di sé che quando suona e compone tendono a riunirsi. A diventare una cosa sola. La prova, l’ulteriore prova? Il suo ultimo album, che uscirà a giorni: si chiama “Spotify Is Surveillance”, Spotify è sorveglianza. E’ solo sorveglianza, niente a che fare con la musica. 

Perché la musica sta altrove. Sta, probabilmente, nei concerti, nei suoi concerti che hanno accompagnato la lunga stagione del Black Lives Matter, sta nella chitarra, nella sua chitarra che ha suonato in tante piazze americane, dai Gay Pride agli scioperi degli insegnanti di Boston. Sta nel suo penultimo lavoro – “she, her, they, them” –, forse il documento musicale più profondo ed autorevole su chi sceglie – o non vuole scegliere – un’identità di genere.

E la musica sta certo in “Spotify is Surveillance”. A cominciare dal singolo – che precede l’album e che da due mesi è scaricabile su bandcamp – , “Back Row”. Dove un incedere lento della chitarra e della voce, quasi minimale – a mo’ dei Feelies, per chi ricorda lo storico gruppo del New Jersey – passo dopo passo, ti accompagna ad un’atmosfera disincantata. Dove anche la voce si modula su una frequenza che sembra non lasciare più molto spazio alla speranza.

Oppure – di nuovo – la musica sta in quel brano, “Emma Goldman Would Have Beat Your Ass”. Titolo strano per un omaggio, il suo omaggio alla filosofa, all’intellettuale anarchica americana, protagonista della storia a cavallo fra l’800 e il 900. Una militante che provò anche a sostenere la rivoluzione bolscevica, prima della rivolta di Kronštad, quando fu costretta a lasciare precipitosamente l’Unione Sovietica. Ricominciando le sue battaglie che la portarono in Spagna, dove di nuovo dovette scontrarsi col fascismo ma anche con l’ottusità di organizzazioni ormai egemonizzate dallo stalinismo.

E lui come la omaggia? Recuperando tutta intera la rabbia, l’essenzialità del punk losangelino della fine degli anni ’70. Con un brano che sarebbe perfetto in “The Decline of Western Civilization”, un tappeto di suoni duro, incalzante, sopra il quale ci tesse una sorta di poesia urlata. Il manifesto di una prossima rivolta. Fatta anche in nome di Emma Goldman.

Ed ancora, forse la musica – vera – sta anche in quella inusuale cover di John Prine, “Angel fron Montgomery”. Una canzone del folksinger dell’Illinois che potrebbe davvero essere considerata un’anticipazione di quel che sarebbe avvenuto anni dopo, con l’esplosione del movimento femminista; dove John Prine, nel ’71, con una chitarra in mano, raccontava di un’anziana casalinga, che non ne può più di lavare i piatti, non ne può più di una vita davanti alla tv. Di una routine che la uccide. Qui, però, quell’atmosfera confidenziale dell’originale lascia il posto al linguaggio che Greer ritiene più consono alla denuncia: ancora un punk essenziale. Senza cedimenti, senza fronzoli.

In tutto l’album non c’è però una canzone che si chiami “Spotify is Surveillance”(c’è comunque “Surveillance Capitalism”). Allora perché quel titolo? “Perché – spiega Evan Greer in un’intervista a pitchfork.com – se permettiamo a un modello di business parassitario, basato sulla sorveglianza e la manipolazione di dominare l’industria musicale, è chiaro che questo servirà semplicemente a rafforzare ed esacerbare le forme di ingiustizia esistenti. Tanto più in un settore che è stato a lungo afflitto dalla supremazia bianca, dal patriarcato, dall’eterosessismo”.

E Spotify – il servizio di riproduzione digitale, non l’album – è forse la punta di diamante di tutto questo. “Si presentano alla moda, sembrano progressisti ed amici dei musicisti. Il loro modello di profitto si basa invece sulla raccolta dei nostri dati, sul monitoraggio delle emozioni, sulla profilazione dei nostri comportamenti per arricchire gli inserzionisti”. Basti pensare che Spotify ha recentemente depositato un brevetto per uno strumento capace di monitorare i discorsi, addirittura il tono della voce degli ascoltatori. “Ufficialmente per consigliare la musica più adatta al nostro stato d’animo – prosegue Evan Greer – ma sappiamo che non è vero”.

La musica dovrebbe essere altro. “Dovrebbe riguardare connessione ed esperienza collettiva, non sorveglianza e sfruttamento”. E allora, semplicemente: la musica non è su Spotify.

Back Row