La prima ad applaudire il report sul mercato europeo presentato ieri da Enrico Letta è Giorgia Meloni l’Europeista: «Lo ringrazio. Ci sono spunti molto interessanti e importanti presi anche dal lavoro del governo». L’accordo è pieno su tutto: necessità di rafforzare l’industria europea tenendo conto della vocazione manifatturiera italiana, autonomia strategica in particolare sull’energia in connessione con i Paesi terzi, «e questo facciamo noi col Piano Mattei», natalità «tema coraggioso che è la più grande sfida economica della Ue».

Il cuore della proposta Letta, come di quella alla quale sta lavorando Draghi, riguarda le risorse, faccenda spinosissima che rinvia anche all’eterno scontro sul debito comune. «Letta riapre il dibattito sul come mobilitare capitali privati per queste sfide e fare in modo che rimangano nel mercato europeo. Possiamo avere le strategie migliori ma se diciamo no al debito comune, no al debito degli Stati, no ai finanziamenti privati quelle strategie non le realizzeremo mai».

I toni della premier italiana e l’orizzonte in cui si muove non si distanziano affatto da quelli di Draghi e Letta. Non che sia cambiata lei però, almeno a suo dire. Sono gli europeisti come i due autori dei report «a dire che l’Europa va cambiata e quel che mi interessa è sapere se vogliamo cambiare quel che non ha funzionato: oggi anche chi diceva che tutto andava bene fa i conti col fatto che le priorità devono essere altre». Gioco delle parti, artifici dialettici, la conclusione non cambia. La leader arrivata al governo con parole d’ordine in larga misura antieuropee, le stesse che ancora brandisce Salvini col suo manifesto elettorale «Più Italia, meno Europa», parla oggi come una fervente europeista, sia pur decisa a cambiare l’Unione. Schieramento del quale il capofila è appunto Mario Draghi.

Non significa che la premier ne sponsorizzi l’ipotetica candidatura a presidente della Commissione europea. Non si espone e non lo farà sino a dopo le elezioni. Discutere di nomine prima di sapere quali equilibri deciderà l’elettorato «è filosofia». Oppure è «propaganda elettorale». Ma che le porte non siano affatto chiuse la premier riesce a farlo capire comunque: «Draghi è molto autorevole e sono contenta che si parli di un italiano per quel ruolo ma non parteciperò a questo dibattito prima delle elezioni».

Forse anche perché è impegnata a imporre questa nuova immagine europeista, affidabile e rassicurante, Giorgia Meloni ha un moto di visibile insofferenza quando la interrogano sul 25 aprile e sull’antifascismo: «Quel che avevo da dire sul fascismo l’ho detto 100 volte e non ritengo di doverlo ripetere. Potete continuare a sostenere sui vostri giornali che sono una pericolosa fascista ma chi segue l’azione del governo sa che gli estremisti stanno da un’altra parte».

Altrettanta insofferenza Meloni palesa quando viene incalzata sulla par condicio o sull’emendamento FdI sulla presenza delle associazioni pro-life nei consultori: «Gli emendamenti sulla par condicio sono dell’attuale opposizione e ricalcano la legge in vigore. Vogliamo dire che quella legge è sempre stata sbagliata?». E sui consultori: «I contenuti dell’emendamento erano già nella legge 194, che io voglio applicare e non cambiare. Mi viene il dubbio che a volerla cambiare sia proprio l’opposizione». Sono schermaglie nelle quali la premier è abile, ma pur sempre di schermaglie e propaganda si tratta. Lo slittamento verso l’europeismo modello Draghi invece è reale. Ma la premier dovrebbe spiegarlo prima di tutti alla sua maggioranza e ai suoi alleati.