Nella vita di Roy e Celestial, giovane coppia della classe media nera, il destino fa irruzione in una calda sera di primavera mentre si concedono una serata romantica in un motel del Sud degli Stati Uniti, dopo essere andati a trovare i genitori di lui ad Atlanta. In pochi minuti si ritroveranno sdraiati a terra, mezzi nudi, le mani ammanettate dietro la schiena, circondati da agenti che accusano l’uomo di aver stuprato, nella mezz’ora che ha passato fuori della stanza per riempire il secchiello del ghiaccio, un’anziana ospite dello stesso albergo. Sarà solo l’inizio di una vicenda terribile, destinata a portare Roy dietro le sbarre da innocente e a cambiare per sempre, fino a travolgerle, le loro esistenze.
Con Un matrimonio americano (Neri Pozza, pp. 364, euro 18,00), oggetto di una grande attenzione da parte della critica statunitense e delle lodi, via media, di personaggi del calibro di Oprah Winfrey e Barack Obama, Tayari Jones affronta il peso devastante che i pregiudizi razziali continuano ad esercitare nella vita del Paese. Lo fa però in una forma inedita e affascinante, raccontando gli effetti che tutto ciò può produrre su una coppia, dentro un amore, dove di fronte alla tragedia, si misura la propria capacità di restare fedeli a se stessi e agli altri.

Con una forza straordinaria il suo libro rivela cosa comporti ancora oggi avere la pelle nera negli Stati Uniti. Come convivere con l’idea che solo per questo si può essere oggetto di pregiudizi, discriminazioni, veri e propri abusi?
Convivere con quest’idea è molto difficile, ma l’alternativa è lasciarsi consumare dalla disperazione. Come i protagonisti del libro, vivo una vita confortevole ad Atlanta. Sono cresciuta in una comunità completamente nera di persone istruite. Alcuni dicono che sono cresciuta in «una bolla» e che la mia vita «al riparo» non assomigliasse in realtà al mondo reale. Anche se non credo che alcuni «mondi» siano reali e altri no. So solo che ho amato la mia infanzia perlomeno fino a quando avevo all’incirca dieci anni e ad Atlanta è apparso un assassino che dava la caccia ai bambini neri. Quasi trenta bambini sono stati uccisi, due dei quali erano studenti della mia scuola elementare. A quel punto ho capito che essere neri significava vivere sotto assedio. Quindi, quando mi chiedono come faccia a convivere con la paura in ogni momento, devo confessare che non conosco altro modo di vivere.

La scrittrice americana Tayari Jones

Ciò che colpisce di più nel romanzo, è che nessuno dei personaggi sembra davvero stupirsi di quanto accade a Roy, quasi si fosse di fronte ad una sorta di tragico destino al quale è difficile opporsi. È questo lo stato d’animo dominante?
Negli Stati Uniti, ogni persona di colore che non è vittima di una qualche forma odiosa di oppressione sa di essere fortunata. Quando sei felice e hai successo, ti viene costantemente ricordato che rappresenti una sorta di eccezione ad una regola tragica. Quando il peso del sistema giudiziario cala sulla testa di Roy, lui si sente come se la sua fortuna finisse, o come se il suo angelo custode avesse soltanto voltato la testa. È un po’ come pensare che il tempo delle nostre vite ci è stato prestato da qualcuno che prima o poi se lo può riprendere.

Nel 2013, quando in California fu assolto l’uomo che aveva ucciso senza motivo il 17enne afroamericano Trayvon Martin – la prima di una lunga serie di giovani vittime nere -, Obama disse che all’età del ragazzo avrebbe potuto essere proprio come lui e subire la sua stessa, tragica sorte. Anche i protagonisti del suo romanzo appartengono alla classe media: violenza e discriminazioni non hanno un confine sociale?
In realtà, penso che entrambi questi elementi siano influenzati anche dall’appartenenza di classe delle vittime. La maggior parte delle persone uccise dalla polizia è povera o appartiene alla working class. Eppure quando penso al ceto sociale come un deterrente rispetto ai pregiudizi e alla violenza, mi rendo conto che spesso non è affatto una garanzia sufficiente. C’è un bel libro della scrittrice e poetessa Claudia Rankine, Cittadino che si interroga proprio sul «razzismo della porta accanto», non sui delitti compiuti dai suprematisti bianchi, ma sulle vessazioni quotidiane che può ad esempio subire un ragazzino nero che appartiene ad una famiglia agiata. Si tratta di ciò che rientra spesso nella definizione di «micro aggressioni», ma che in realtà rappresentano in ogni caso una forma di attacco e anche grave alla dignità di una persona. E comunque, come detto, anche Trayvon Martin apparteneva classe media, ma chi lo ha ucciso ha visto solo «un nero con il cappuccio sulla testa», e questo è stato abbastanza per premere il grilletto. Di fronte ad un fatto del genere chi, soldi o non soldi, può davvero sentirsi al sicuro se è nero?

Ad un certo punto, nel romanzo, Roy dice a Celestial: «Io sono innocente». E lei gli risponde: «Anch’io sono innocente». Il dialogo ha a che fare con la loro vita matrimoniale distrutta, ma sembra fare riferimento anche al fatto che madri, mogli e sorelle dei maschi neri uccisi per strada o reclusi sono anch’esse sottoposte alla medesima ingiusta condizione…
È proprio così. Né Celestial né Roy hanno meritato questa tragedia. Lei potrebbe realizzare la vita per la quale si è impegnata a lungo, ma Roy vuole che lei viva solo una sorta di vita a metà proprio come è costretto a fare lui dentro una cella: non riesce a pensarla libera di vivere il proprio sogno fintanto che lui è rinchiuso. La sofferenza sembra permeare tutto e, dopo quello che è accaduto in seguito all’arresto dell’uomo nel motel, i protagonisti si interrogano entrambi se si possa davvero o meno cercare di andare avanti con le proprie vite. L’orizzonte è dominato dal razzismo che ha colpito Roy e dal fatto che ogni possibilità di sopravvivere a questo, per entrambi, sembra assumere la forma del tradimento.

Il romanzo è ambientato ad Atlanta, la città dove è nata e cresciuta anche lei e che, fin dall’elezione del suo primo sindaco afroamericano negli anni Settanta (Maynard Jackson, e poi a lungo Andrew Young), ha rappresentato il rinnovamento del Sud e l’emergere di una borghesia e un ceto intellettuale neri. Cosa ne è di quel simbolo di rinnovamento?
Dopo molti anni nei quali ho vissuto altrove, proprio di recente sono tornata a vivere ad Atlanta, ma non nel quartiere in cui sono cresciuta, ma diciamo a venti minuti di macchina. Dove abito ora, la popolazione è per metà nera e per metà bianca. Del resto, Atlanta che una volta era conosciuta come la «città del cioccolato» per la sua maggioranza di afroamericani sta cambiando. I bianchi stanno infatti facendo ritorno nelle zone centrali dopo essere fuggiti verso i suburbi per decenni. Questo, mentre i residenti neri poveri e della classe operaia sono stati progressivamente «spostati» in seguito alla ristrutturazione urbana: dopo aver vissuto qui per tutta la vita, non si possono più permettere i prezzi della città. Comunque, malgrado i forti cambiamenti che la attraversano, si può dire che Atlanta è ancora la capitale nera degli Stati Uniti.

Proprio nella città simbolo della rinascita afroamericana – come ha già ricordato – tra il 1979 e il 1981 furono uccisi 24 ragazzini neri. Una vicenda agghiacciante di cui lei si è occupata nel suo romanzo «Leaving Atlanta», ancora inedito in Italia, che rappresenta uno dei grandi misteri della recente storia americana.
Come dicevo, quella tragedia mi ha rivelato l’esistenza del razzismo nel modo più brutale quando avevo solo 9 anni, al punto che ancora oggi guardo alla mia vita come un prima e un dopo gli omicidi d Atlanta. Per alcuni assassinii fu arrestato un nero, Wayne Williams, che si è però detto sempre innocente e in molti, nella comunità, hanno tirato un sospiro di sollievo pensando di aver esorcizzato così i fantasmi del crimine razziale che hanno circondato a lungo tutta quella storia. La verità è però ancora lontana e proprio in queste settimane lo sceriffo locale, nato è cresciuto qui proprio come me, ha deciso di riaprire ufficialmente il caso. Gli omicidi di quei bambini hanno rubato la nostra infanzia e noi vogliamo delle risposte.