I dati sono depressi e deprimenti, in un panorama mirabile per la sua compatta e grigia omogeneità. Per fortuna (di Matteo Renzi) quando la realtà è dispettosa e gufa, accorrono i professionisti del pensiero positivo, ed ecco che per miracolo tutto diventa roseo. I dati Istat di ieri sulla disoccupazione, per esempio: un tripudio, a leggere le felicitazioni dei governanti con se stessi, e l’assenso dei corifei in gran pompa. Tasso di disoccupazione all’11,5 per cento, mai così basso dal 2012: una meraviglia. Ma che bella «conferma del trend positivo», giubila il ministro del lavoro Giuliano Poletti. «Mai così bassa da un triennio, ma non ci accontentiamo», duetta il capo dei deputati Pd Rosato, tipo grintoso, che non riposa sugli allori. Titti Di Salvo, già Sel passata con tutto il cuore al renzismo, non è da meno: «Trend positivo dovuto alle scelte del governo».

Per una volta non c’è da domandarsi se ci sono o ci fanno. Ci fanno. Sono consapevoli della realtà negativa di quei dati. Lo sanno da soli che quando la disoccupazione cala davvero, il numero degli occupati sale. Stavolta invece scende. Rispetto a 3 mesi fa ci sono 39mila occupati in meno, pari allo 0,2 per cento. Non è un gioco di prestigio. È solo che molti, siccome il lavoro nemmeno lo cercano più, vengono considerati non “disoccupati” ma “inattivi”. Tutta un’altra cosa. Aumentano, in stretta coerenza con un trend ormai triennale dovuto alla riforma delle pensioni Fornero, gli occupati ultracinquantenni: 900mila in più nel triennio. In compenso la disoccupazione tra i giovani cresce ulteriormente, 39,8 per cento. Renzi è comunque soddisfatto perché resta al di sotto del 40.

Naturalmente scrosciano applausi aggiuntivi per l’impennata degli occupati a tempo indeterminato. Certo sono dovuti agli incentivi, e con gli incentivi scompariranno. Poi, grazie al Jobs Act, che siano formalmente assunti a tempo indeterminato cambia zero, essendo licenziabili a piacimento. Ma il dato fa comunque impressione e questo è ciò che conta.

La faccenda non migliora scivolando verso il fronte dei conti pubblici. L’economia, che già non era precisamente lanciatissima, perde colpi. La produzione scende dello 0,2per cento, l’obiettivo già poco glorioso di uno 0,9 in più a fine anno è già una chimera. Il ministro Padoan fa finta di crederci ancora. Renzi, prudente, mette le mani avanti: «Arriviamo allo 0,8%». Stima ottimista pure questa: la «crescita acquisita», quella basata su dati e non su speranze e scongiuri, al momento è dello 0,6.

Non sarebbero conti da fregarsi le mani in nessun caso. Nello specifico però sono anche meno confortanti di quanto appaiano. Non si riferiscono infatti a un anno difficile e neppure a un anno come tanti, ma a una fase segnata dacircostanze tanto favorevoli quanto fragili: il Quantitative Easing imposto da Draghi a una recalcitrante Germania, il crollo del prezzo del petrolio e di quello del denaro. Ma le cose stanno rapidamente cambiando e non in meglio, un po’ per lo shock di Parigi, molto più per la crisi delle cosiddette “economie emergenti”.

Il quadro non si esaurisce qui. Manca una voce: quella “deflazione” che, provocata dalle politiche ossessivamente anti-inflazioniste imposte dalla Germania, è diventata nel corso di pochi anni un mostro ancora più temibile. I prezzi, nell’ultimo mese, sono scesi in Italia dello 0,4 per cento, ed è un dato allarmante non solo per il nostro Paese ma per l’intera Europa. Mario Draghi, l’unico santo che l’Italia vanti in paradiso, proverà a fronteggiarla domani, di fronte all’Eurotower. Proporrà di prolungare il Quantitative Easing, forse di un anno, forse anche qualcosa in più. Probabilmente cercherà di aumentare la liquidità da 60 a 70 miliardi e più.

Non sarà una partita facile. A Berlino il fronte del rigore dissennato è ancora fortissimo. Quasi certamente Draghi la spunterà, ma forse non nella misura auspicata. In ogni caso, anche nella migliore delle ipotesi, una ripresa flaccida e tutta basata sul miracolo di san Mario avrebbe respiro cortissimo, come i dati di oggi dovrebbero provare anche ai plaudenti più solerti.

A Montecitorio, dove si discute la legge di stabilità, i segnali provenienti della gufesca realtà proprio non arrivano. Il più significativo emendamento approvato ieri riguarda la possibilità di pagare con la carta di credito anche per spese minime. Sacrosanto, ma non particolarmente efficace. È poi già pronto il decreto salvabanche, da aggiungere al testo della legge. Sul sud, invece, nulla di fatto. Le strategie di Renzi e Padoan non lo contemplano.