Elizabeth Strout ha sempre affermato di amare incondizionatamente tutti i suoi personaggi, anche i più antipatici: «Non potrei scrivere di loro se non li amassi», ribadiva all’uscita di Tutto è possibile, nel 2017. L’affetto la porta a incuriosirsi delle loro esistenze oltre la fine dei romanzi in cui appaiono, dunque non stupisce che, a distanza di una dozzina d’anni dalla prima comparsa, Strout sia tornata a occuparsi della sua protagonista più amata (e di maggior successo) Olive Kitteridge, «una donna difficile», come ha più volte ripetuto.

In Olive, ancora lei (traduzione di Susanna Basso, Einaudi, pp. 265, € 19,50) ritroviamo l’indisponente professoressa di matematica di Crosby, fittizio villaggio costiero del Maine, così come l’avevamo lasciata al termine del romanzo eponimo: vedova ultrasettantenne, in pensione, in procinto di affrontare la terza età insieme a un coetaneo, ex accademico, pure lui vedovo, Jack Kennison.

Scegliendo ancora una volta di costruire il romanzo in forma di racconti, Strout accompagna la sua Olive attraverso la vecchiaia, una condizione esistenziale con cui l’intrattabile signora, poco alla volta, viene a patti, smussando molti angoli del suo bisbetico carattere. Il cambiamento di Olive avviene per gradi, quasi impercettibilmente, ma questo nulla toglie al vigore del personaggio, anzi porta anche chi l’aveva trovata insopportabile in Olive Kitteridge ad amare l’anziana ex insegnante che a volte con gesti beffardi o frasi irriverenti riesce a ravvivare anche i racconti di cui non è protagonista.

I momenti di grazia
Se alcuni cambiamenti nella spigolosa Kitteridge si devono alla presenza di Jack, nel frattempo divenuto suo secondo marito, che la aiuta nel compito per lei apparentemente insostenibile di abbandonare, fosse pure per un istante, il centro della scena, è soprattutto di fronte alla consapevolezza della propria mortalità che nella corazza egocentrica e narcisista di Olive iniziano a comparire inattesi sprazzi di empatia e compassione. Come in una serie tv in cui la storia di un personaggio è narrata attraverso vari episodi, ognuno in sé concluso, che si snodano nel tempo mantenendo una imprescindibile unità di luogo, gli abitanti di Crosby, a cominciare dalla stessa Olive, appaiono nei tredici racconti di cui il volume si compone, ora in veste di protagonisti, ora di comprimari, ora addirittura in brevissimi camei, sullo sfondo della loro cittadina, sempre uguale a se stessa, non fosse che per il mutare delle stagioni.

Maestra nell’arte di conferire unicità e significato a ciò che all’occhio comune sfugge, a ciò che si tende a etichettare come banale, Elizabeth Strout racconta piccoli fatti senza importanza di vite inosservate, gesti apparentemente insignificanti, luci che cambiano il colore di un paesaggio conosciuto. Per la scrittrice americana, nessuna vita è «comune», nessun panorama monotono: «it’s just a life», le dice una infermiera, e Olive: «Well, it’s your life. It matters», («Si, ma questa è la tua. Fa differenza»). Allo stesso modo, la luce di febbraio, per chi ne sappia cogliere lo scintillio «attraverso i rami nudi degli alberi, a gola spiegata, come succede verso il calare del giorno», filtra «come una promessa» («It promised, that light», come se una sorta di volontà soprannaturale investisse la misteriosa luce del tardo inverno).

La grandezza di Strout è tutta in questa capacità di rendere i «momenti di grazia» che la vita riserva a ognuno di noi, avvicinandosi a ogni esistenza, anche la più misconosciuta, con non comune empatia. Del resto, i migliori racconti di Olive, ancora lei sono quelli in cui si narrano accadimenti quotidiani, esperienze in cui ognuno può riconoscersi, situazioni comuni alle famiglie di tutto il mondo: rapporti complicati con i figli, incomprensioni tra fratelli, antipatie tra cognate, dissidi tra suocere e nuore; il tedio e l’incomunicabilità dei lunghi matrimoni; i problemi dell’età che avanza, dalla solitudine alla progressiva perdita di autosufficienza, con la conseguente, inevitabile, necessità di affidarsi a estranei per sopperire ai propri elementari bisogni quotidiani.

Così, di racconto in racconto, l’attitudine mentale di Olive cambia, invecchia di pagina in pagina manifestando tutte le paure e le idiosincrasie dell’età, ma anche avvicinandosi inaspettatamente agli altri, fino a riannodare la difficile relazione con il figlio e stabilire, nell’ultima storia, un rapporto di amicizia, forse il primo della sua lunga vita, con una coetanea incontrata nella casa di riposo dove entrambe sono ricoverate: «Certe volte ultimamente… mi succede di rado, molto di rado, ma certe volte mi pare di essere diventata una persona – un pochino – pochino – migliore», confessa a una conoscente cui è accanto con la sua ruvida vicinanza. Alla solitudine altrui, che altro non è se non uno specchio della sua, Olive offre una sorta di impacciato conforto, prestandosi a una empatia che non riconosce a se stessa: «Le sembrava di non avere mai capito fino in fondo quanto potesse essere divergente l’esperienza umana… Proprio lei, sempre convinta di sapere quello che gli altri ignoravano … lei, chi diavolo era lei?».

Eccezioni del quotidiano

E ancora alla fine del libro, pensando con un «senso di trepidante stupore» alla propria morte imminente, Olive ribadisce: «Non ho la minima idea di chi sono stata». Anche a chi legge non è richiesto capire, interpretare, giudicare Olive Kitteridge, malgrado (o forse proprio per) il suo essere, secondo il parere comune di entrambi i suoi mariti, «così tanto Olive», riconoscibile e meravigliosamente affine a tante persone comuni a tutti noi, alla nostra quotidianità che è per tutti noi assolutamente unica.