«Il teatro senza conflitto non esiste, è un concetto molto antico che credo sarà sempre vero». Tanya Beyeler, metà della compagnia catalana El Conde de Torrefiel insieme a Pablo Gisbert, riporta all’antichità un linguaggio scenico che sembrerebbe invece scrutare in un futuro distopico. Nel loro teatro le convenzioni vengono sottoposte a critica, si può fare a meno persino degli attori e della messa in scena, ma non manca un’estetica rigorosa e il gusto per un’ironia dal sapore situazionista.

Ed è stata proprio la creazione di una situazione quella a cui abbiamo assistito allo scorso festival di Santarcangelo: nello spettacolo Ultraficción nr. 1 ogni avvenimento è stato rimosso dal palcoscenico e disseminato nell’ambiente circostante, in una sorta di «realtà aumentata» senza alcun dispositivo digitale. Se una rappresentazione è di per sé un atto di falsificazione, El Conde de Torrefiel lavora per sottrazione e allo stesso tempo si spinge oltre nel voler interrogare i confini tra reale e irreale in un percorso che prevede ancora diversi capitoli prima dello spettacolo conclusivo in arrivo la prossima primavera. Nelle parole di Beyeler: «Volevamo partire da questa sensazione, che si è accresciuta con la pandemia, secondo la quale la realtà e la fiction sono arrivate ad un livello di sovrapposizione molto complesso ed elaborato, al punto che tutto sembra una costruzione».

Da quali riflessioni deriva la scelta radicale di utilizzare il testo scritto e proiettato sul fondale piuttosto che la parola pronunciata?
È una tendenza che si è affermata negli ultimi tre lavori, ma non la applichiamo sempre. Le nostre proposte a livello estetico sono piuttosto fredde, la quarta parete è molto presente e abbiamo un approccio minimalista. Credo però che leggendo un testo tra sé, con la propria voce, si attivi un processo emozionale. Inoltre l’aspetto stesso del testo, la sua forma e il modo di occupare lo spazio possono costituire una scenografia. Trovo molto interessante l’idea che lo spettatore debba leggere senza mediazioni, viviamo in un’epoca in cui c’è quasi sempre un intermediario nel ricevere o nel dare informazioni. All’antitesi c’è la letteratura, che è un’esperienza molto gratificante. I nostri lavori si svolgono a teatro, dove c’è un presente condiviso che per me è l’aspetto più importante, per il resto la situazione potrebbe essere la stessa che leggere un libro. Noi la teatralizziamo attraverso il suono, le luci, alcune azioni. Ma leggendo con il proprio bagaglio biografico e culturale, l’opera si completa veramente nella testa dello spettatore.

Lo spettacolo visto a Santarcangelo è solo la prima tappa di un percorso nel quale vi concentrerete sul rapporto tra realtà e finzione, perché lo avete intrapreso?
Siamo arrivati al punto in cui è veramente difficile distinguere il vero dal falso. È anche logico considerato che l’essere umano prova a manipolare la realtà a proprio favore. Vogliamo cercare di capire come si possa tradurre teatralmente questa sensazione, che abbiamo chiamato «ultrafiction». Ci interessa esplorare la nozione del confine, penso che il livello di realtà o di finzione dipenda dal luogo in cui ci si trova, se più o meno vicino al confine. La vaschetta con la carne che compro dal macellaio è una composizione, un artificio, mentre se mi avvicino alla soglia del mattatoio trovo un’altra realtà, nonostante facciano parte della stessa storia. È in atto una guerra di pensiero a proposito di come strutturare e mantenere il sistema che credo abbia molto a che vedere con i confini: a seconda del luogo in cui ci si posiziona la storia cambia, lo vediamo ad esempio con la questione dell’immigrazione.

Nei vostri lavori emerge spesso una critica alla società tecnologica e dei consumi. Come entra la visione politica nel vostro teatro?
Vorrei che la critica potesse essere portata avanti da ognuno a livello intimo e personale. Non ci è mai interessato manifestare in maniera ovvia una posizione politica, mentre è importante per noi attivare delle domande che si possono ripercuotere sul terreno politico. Essendo animali sociali credo che qualsiasi cosa facciamo può avere una valenza politica,

Siete molto diretti con lo spettatore e il vostro tono è spesso poco accomodante, quale considerazione avete del pubblico e da cosa deriva la scelta di non uscire a prendere gli applausi al termine degli spettacoli?
I nostri lavori hanno bisogno della partecipazione dello spettatore, potremmo dire della sua «digestione» di ciò che gli proponiamo, considerato che lavoriamo sempre molto nella sua testa. Possono sembrare spettacoli che si appellano a chi guarda in maniera molto diretta, ma ci sono sempre dei vuoti da colmare. Per questo alla fine rimane un interrogativo aperto, un fade-out o un evento drastico che chiede di essere interpretato. Anche il non uscire a prendere gli applausi è una scelta legata al desiderio di non segnare una chiusura netta, affinché rimanga la sensazione per lo spettatore di poter continuare da sé lo spettacolo. Inoltre, quella degli applausi è una parte della convenzione teatrale che non ci interessa.