Un segnale, preciso e inequivocabile, rivolto a Renzi ma anche ad Alfano. Per lanciarlo i senatori di Verdini e una cospicua parte di quelli centristi colgono un’occasione da Dottor Stranamore.

A proposito di norme antiterrorismo, la legge in discussione a palazzo Madama commina 6 anni a chi si tiene in cantina una bombetta nucleare, e 12 a chi la fa anche esplodere. L’emendamento dei forzisti Caliendo e Palma, quello che manda sotto il governo, raddoppia le pene. Sempre che qualcuno sopravviva. Gli alati (nel senso di Ala) votano tutti l’emendamento antinucleare.

Nell’Ncd metà gruppo diserta, e su 15 presenti 9 votano con gli azzurri.

Nella sostanza la sconfitta del governo è indolore. Ma sul piano politico è altro paio di maniche.

L’alato Ciro Falanga finge di minimizzare: «Emendamento di merito». Nel dubbio che qualcuno possa credergli, però, si affretta ad aggiungere: «Tutti hanno notato che a determinare il risultato sono stati i voti del gruppo Ala». Che si tratti di un messaggio minaccioso è evidente. Con quale obiettivo lo è molto di meno. La sera precedente Renzi e Verdini si erano sentiti al telefono. Il ruggente Denis, a quel punto, aveva già riunito la sua tutt’altro che serena truppa, ordinando di mantenere salda la barra «per ora». Ma i malumori non gli erano sfuggiti.

Denis, ma anche i centristi di Alfano, temono che oggi in direzione il quasi defenestrato di palazzo Chigi viri a sinistra, nella speranza di recuperare i voti defluiti verso l’astensione o i 5 stelle. A loro resterebbe solo l’ingrato ruolo di portatori d’acqua, senza neppure poter vantare un qualche condizionamento sull’esecutivo e senza speranza di trovare un posticino all’ombra del Pd alle prossime politiche: miraggio svanito tra il 5 e il 19 giugno. Ci tenevano dunque a far sapere che non sarebbero d’accordo e che il loro disaccordo potrebbe persino abbattere il governo in tempo utile per far saltare il referendum e ripartire da zero. «È solo un sassolino e dovrebbe restare tale», commenta a caldo un renziano doc come Tonini. «Certo – aggiunge – anche le valanghe cominciano con un sassolino».

Nell’Ncd la situazione è più confusa. Il voto non era indirizzato solo all’inquilino di palazzo Chigi ma anche al ministro degli Interni, accusato di conclamata sudditanza ai voleri e agli interessi del ragazzo di Rignano, con le note e disastrose conseguenze sul piano elettorale. L’area vicina al capogruppo Schifani, rappresentata dai fedelissimi Esposito e Azzollini, è apertamente ostile all’ex delfino di re Silvio.

Su posizioni parzialmente diverse, Lupi e Cicchitto sembra profetizzino la crisi di governo a ottobre e mirino a riaprire di corsa i giochi con Forza Italia. Insomma, tutte le convulsioni proprie dei soggetti politici in disfacimento.

Su un punto però il segnale scagliato ieri è univoco: la richiesta di modificare l’Italicum. E non sale solo dagli infidi alleati, ma anche dal profondo del Pd. Michele Emiliano, governatore della Puglia, ha di fatto posto ieri la modifica della legge elettorale come condizione per il suo sì al referendum.

Oggi Renzi affronterà la questione, ma senza concedere molto. Affermerà che se il Parlamento vuole e può cambiare la legge, lo faccia pure. Forse non a caso due giorni fa il presidente del gruppo Misto Pisicchio ha presentato un progetto di legge elettorale che fa slittare il premio dalla lista alla coalizione e innalza al 50% la soglia per accedervi già al primo turno.

Messa così l’intera faccenda è surreale. La legge deve ovviamente essere ancora calendarizzata. L’ipotesi che venga votata prima del 4 ottobre, quando la Consulta si esprimerà sull’Italicum, è fuori dal mondo. Pensare che la legge elettorale venga modificata subito dopo la sua eventuale approvazione da parte della Corte costituzionale è altrettanto poco realistico.

La legge Pisicchio, presentata come «atto non ostile ma collaborativo col governo» e scritta per intervenire proprio sui punti che la Consulta potrebbe bocciare mantenendo però l’impianto dell’Italicum, si configura casomai come una rete di salvataggio in caso di pollice verso il 4 ottobre. Se davvero Renzi oggi si mostrerà meno rigido del solito in materia, sarà un messaggio non al Parlamento ma alla Corte.