È successo di nuovo. A Orta Nova, in provincia di Foggia, intorno alle due di sabato si è consumata l’ennesima tragedia con armi legalmente detenute. L’agente di polizia penitenziaria Cirio Curcelli, 53 anni, ha ucciso la compagna Teresa 54enne e le due figlie di 12 e 18 anni, per poi suicidarsi. Con la pistola di ordinanza. «Ho ucciso mia moglie e le mie figlie. Ora mi uccido. Lascio la porta aperta» ha confessato Curcelli in una chiamata ai carabinieri prima di mettere la parola fine al suo folle gesto.

La tragedia ci riporta alla mente casi analoghi di omicidi-suicidi in ambito familiare ben noti alle cronache italiane. Come quello dell’ispettore in servizio all’ufficio immigrazione della Questura di Venezia Luigi Nocco, che nell’agosto 2017 ha sparato alla moglie uccidendola per poi rivolgere l’arma contro se stesso. Ancora una volta con la pistola d’ordinanza. O il caso più recente, nell’aprile di quest’anno, di Simone Cosentino, poliziotto 42enne della questura di Ragusa che ha scaricato sulla moglie mentre dormiva tre colpi della pistola di ordinanza. Subito dopo, il suicidio.

Il problema non è la professione degli omicidi, simili tragedie sono avvenute anche per mano di non appartenenti alle forze dell’ordine. Il problema reale è la disponibilità di armi in casa. È vero che un omicidio può essere commesso con qualsiasi oggetto, o anche solo con le proprie mani, ma in un momento di follia o di disturbi psichici l’avere o non avere a disposizione un’arma da fuoco tra le mura domestiche fa la differenza. E secondo i dati del Viminale, aggiornati a luglio 2018, sono 1.315.700 le licenze rilasciate in Italia per detenzione legale.

L’arma da fuoco comporta degli evidenti vantaggi per chi intende compiere un simile gesto. Il primo è sicuramente la distanza fisica dalla vittima: una pistola può sparare anche a distanze non strettamente ravvicinate, mentre un altro tipo di arma, un coltello per esempio, necessita di una prossimità con la vittima che può comportare tutta una serie di complicazioni. Psicologiche, soprattutto quando la vittima fa parte della sfera familiare, nonché di efficacia. Sparare è senza dubbio più facile. Chi decide di compiere questo folle gesto ha bisogno di un’arma che non fallisca. Ha già corso tanti rischi, non può permettersi anche questo.

 

 

Uno studio americano del 2015 dal titolo Men who murder their families: what the research tell us ha analizzato 408 casi di omicidio-suicidio. Di questi, l’88% sono stati compiuti con armi da fuoco, per il 91% dei casi da uomini che già in passato avevano manifestato segni di violenza domestica. La ricerca dimostra chiaramente come ci sia un’immediatezza nell’uso dell’arma da fuoco che nessun altro tipo di arma ha. Concetto ribadito ieri anche da Giorgio Beretta, esponente di spicco dell’Osservatorio Permanente sulla Armi Leggere (Opal), che in tweet ha affermato: «Negli omicidi familiari sono le armi da fuoco lo strumento più usato. Armi detenute da legali detentori, spesso persone in divisa. L’arma non è solo un mero strumento, ma stabilisce la dinamica delittuosa».

Ma come fare a prevenire episodi di questo tipo in un paese, il nostro, in cui sempre più persone si avvicinano al mondo delle armi? Nel caso di un semplice legale detentore, una delle soluzioni, anche se poco nota all’opinione pubblica, potrebbe essere il cosiddetto “ritiro cautelativo”: è possibile infatti rivolgersi agli organi di polizia ogni qualvolta si abbia anche solo il sospetto che un legale detentore possa fare un uso improprio della propria arma affinché gli venga momentaneamente ritirata.

Ma come comportarsi nella fattispecie in cui a sparare sono membri delle forze dell’ordine? Ponendo delle limitazioni: basterebbe che fossero obbligati a lasciare le armi di ordinanza nei posti di lavoro al termine del turno, oltre che prevedere un rigoroso sistema di controlli psicologici frequenti.