Con la recente approvazione del decreto Crescita, lo Stato diventa il titolare di una parte del debito storico di Roma Capitale.

In realtà, lo Stato già interveniva annualmente con una quota – parte (300 milioni) e il recente passaggio permette due cose: evitare il default della struttura commissariale che gestisce il debito storico e che si sarebbe a breve trovata senza liquidità, e permettere allo Stato di rinegoziare con i creditori sui tassi di interesse di quel debito, che viaggiano intorno al 6% (!!).

La discussione a livello politico si è incentrata tutta sulla diatriba Stato-Roma, e su chi debba accollarsi il debito.

Nessuno invece ha posto un quesito, che andrebbe sollevato con forza: è giusto che le pubbliche amministrazioni paghino gli interessi sui prestiti a cui accedono?

La risposta dal punto di vista della dottrina liberista sembra ovvia: come in qualsiasi contratto economico, chi finanzia le pubbliche amministrazioni si fa carico di un rischio che dev’essere remunerato.

Dietro questa affermazione, apparentemente scontata, si cela la vera diseguaglianza dell’ordine economico e sociale.

A cosa servono infatti i soldi presi in prestito dalle pubbliche amministrazioni? A mettere in campo politiche, opere e servizi che hanno il compito di favorire l’interesse generale, migliorando la qualità della vita collettiva, e in particolare quella delle fasce deboli della popolazione.

Di chi sono, per contro, i soldi prestati alle pubbliche amministrazioni? Sono della parte di popolazione più agiata, che, oltre al proprio reddito, dispone di denaro che può investire in azioni di banche, assicurazioni, fondi d’investimento.

Spiegata così, diviene più chiaro come le politiche pubbliche, che dovrebbero servire alle fasce più deboli, con il pagamento degli interessi sul denaro raccolto, vanno invece a incrementare le disponibilità delle fasce più agiate, anteponendo il «rischio» di alcuni al benessere di tutti.

È esattamente il meccanismo che ha pregiudicato nel tempo il ruolo dei Comuni, mettendo a forte rischio la loro funzione pubblica e sociale: nell’ultimo decennio, vi è stato un crollo degli investimenti pari al 45% (dati Siope) e un peso del costo degli interessi pari al 10% della spesa corrente, con punte per i piccoli Comuni dal 12 al 18% (dati Ifel).

E con processi di esternalizzazione, privatizzazzione e mercificazione che proseguono dietro l’imperativo di fare cassa ora e chissenefrega del futuro delle comunità.

Possiamo già immaginare l’obiezione: senza riconoscimento di interessi nessuno più presterebbe soldi al pubblico.

Non è così.

La gran parte della popolazione non passa il tempo a investire a destra e a manca alla ricerca compulsiva della profittabilità, vuole solo che i propri risparmi siano tutelati: sono 22 milioni i cittadini che hanno affidato i propri risparmi – oltre 250 miliardi – a Cassa Depositi e Prestiti, che oggi si comporta come un qualsiasi fondo d’investimento, al punto da proporre tassi d’interesse persino maggiori di quelli di una qualsiasi banca (a tal proposito, a settembre ci sarà la sentenza sulla causa intentata dal Comune di Brescia a Cdp).

È qui che entra in campo la necessaria socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti e la sua trasformazione in ente pubblico decentrato per il finanziamento a tasso agevolato degli investimenti degli enti locali.

Perché invece di dissanguarsi nel pagamento degli interessi, il pubblico potrebbe attestarsi sulla tutela del risparmio di chi lo mette a disposizione per migliorare la vita della comunità locale, innescando un circolo virtuoso di partecipazione alle scelte, al finanziamento e al controllo di ciò che si mette in campo in ogni territorio.