Nel tredicesimo giorno di proteste anti-governative, non si intravede ancora uno spiraglio alla crisi. Sotto pressione da parte del suo stesso partito, il Centro Democrático, preoccupato in particolare che la la situazione di Cali sfugga di mano al governo, il presidente Duque ha prima ordinato al suo ministro di Difesa Diego Molano di garantire «il maggiore dispiegamento di cui siano capaci le nostre forze dell’ordine» e poi si è deciso, ieri, a recarsi in città, in una visita lampo, per «monitorare le misure destinate a ridare tranquillità ai cittadini, rafforzare l’ordine pubblico e verificare i passi avanti nel dialogo sociale».

Ma a fare acqua da tutte le parti è l’intera strategia del presidente, il quale si illude di poter gestire con pannicelli caldi una delle peggiori crisi mai attraversate dal paese. Peraltro dimostrando di non aver appreso nulla dalla lezione del Cile, dove, di fronte a una mobilitazione non molto diversa da quella colombiana, il presidente Piñera era riuscito a restare al suo posto solo cedendo – benché fosse un rischio naturalmente ben calcolato – su una rivendicazione centrale dei manifestanti, quella legata al processo costituente.

Invitando al dialogo i diversi settori sociali – e molto più le élite che i protagonisti della mobilitazione – Duque, al contrario, non sembra concedere nulla, affrontando temi ben poco divisivi come la campagna di vaccinazione o i finanziamenti al programma già in corso per l’accesso alle università pubbliche. Non senza puntare a una campagna di disinformazione sulle cause e gli attori della mobilitazione nazionale che, come evidenziano in un comunicato le forze popolari aderenti alla protesta, «la dittatura Uribe-duquista e i vertici militari attribuiscono alle organizzazioni guerrigliere, ai vandali e alle bande criminali e persino a una presunta e occulta agenda comunista internazionale». Come, cioè, se l’«esplosione del dissenso sociale» non fosse il «prodotto di anni di esclusione e di disuguaglianza acutizzato dall’uribismo, la cui criminale riforma tributaria è stata solo la scintilla che ha acceso il fuoco dell’indignazione popolare».

È di questa indignazione che si sono fatti portavoce i rappresentanti del “Comité del paro” nel loro incontro con il governo – nel momento in cui scriviamo la riunione è ancora in corso -, con il loro nutrito pacchetto di rivendicazioni: dalla smilitarizzazione delle città allo smantellamento dell’Esmad, dall’applicazione dell’accordo di pace del 2016 al ritiro delle riforme della salute, delle pensioni e del lavoro, dall’introduzione di un salario minimo a un maggiore investimento nell’educazione. Con un preciso avvertimento, espresso, già prima dell’incontro, dal presidente della Fecode (Federazione colombiana degli educatori) Nelson Alarcón: «La protesta non finirà per il solo fatto di partecipare a una riunione esplorativa con il presidente e il suo gabinetto. Noi andremo avanti con le nostre attività».

E nessuna intesa sarà di certo possibile finché proseguirà la repressione da parte delle forze dell’ordine, il cui bilancio si aggrava di giorno in giorno: sarebbero arrivate a 47 le vittime della violenza, con 1.876 casi di abuso da parte della polizia. E sulla «politica repressiva e militare del governo» si è pronunciata, all’indomani dell’aggressione subita a a Cali, anche la Minga indigena, invitando a «non accettare alcuno spazio di incontro con il governo» finché non si metterà fine al «terrorismo di stato».