«La rielezione di Mattarella è una splendida notizia per gli italiani», dice Mario Draghi appena finito lo spoglio. «Sono grato al presidente per la sua scelta di assecondare la fortissima volontà del Parlamento di rieleggerlo per un secondo mandato».

Lui è entrato in conclave Papa ed è uscito cardinale. Per mesi ha ritenuto la sua ascesa al Colle quasi come una cosa naturale, anche per via della larghissima maggioranza che sostiene il suo governo. E invece appena lunedì i giochi si sono aperti sul serio si è capito che la resistenza di Salvini, Conte e Berlusconi non era un bluff. Senza contare l’ostilità al trasloco del premier al Colle diffusa e trasversale, nella convinzione vera o presunta tra i peones che questa scelta avrebbe portato alle elezioni.

E infatti, nonostante la lealtà di Enrico Letta, che ha provato fino all’ultimo a spingerlo, Draghi non è mai davvero entrato in partita. Lo si è capito lunedì, quando il premier ha visto Salvini che ha iniziato a porre condizioni impossibili per la nascita del nuovo governo: il Viminale per la Lega, un reset quasi completo della squadra. Draghi ha puntualizzato subito di non volere e non potere muoversi da Capo dello Stato prima di essere eletto: «Non è questa la sede per scendere nei dettagli del nuovo esecutivo». Per carattere e per rispetto della Costituzione si è limitato a dire che avrebbe lavorato per facilitare la nascita di un nuovo governo che portasse a termine la legislatura.

Dal leghista è arrivato un muro totale, e in effetti il no a Draghi è rimasto uno dei pochissimi punti fermi della schizofrenica strategia di Salvini. Da martedì il premier si è inabissato, almeno mediaticamente. Fino a giovedì quando ha telefonato a Silvio Berlusconi in ospedale e poi ha visto il numero due di Fi Antonio Tajani. Anche da questa doppia interlocuzione è emersa la certezza che la strada verso il Colle era sbarrata. E così il premier, spinto anche da pezzi importanti della sua maggioranza, ha iniziato silenziosamente il lavoro di tessitura per la conferma di Mattarella che significa anche mettere in sicurezza il suo governo. «Si va avanti, squadra che vince non si cambia. Abbiamo tante cose da fare, saranno sei mesi importanti…», ha confidato venerdì ai suoi collaboratori. Quel giorno c’è stata l’ultima trattativa con Salvini, faccia a faccia, propiziata da Giorgetti in un luogo segreto vicino a via Veneto: fumata nera.

Draghi era molto preoccupato per come si erano messe le cose. E aveva fatto sapere da tempo che solo la conferma di Mattarella (o in subordine l’elezione di Amato), con i voti di tutta la maggioranza, avrebbe consentito al governo di proseguire la navigazione senza troppi scossoni. E così ieri mattina il punto di svolta: al Quirinale, a margine del giuramento del nuovo giudice costituzionale Filippo Patroni Griffi, il colloquio decisivo con Mattarella. Mezz’ora faccia a faccia in cui Draghi ha detto al presidente: «È opportuno che lei resti per il bene e la stabilità del Paese».

Un messaggio che è arrivato nelle stesse ore in cui dal vertice dei leader di maggioranza arrivava l’indicazione per il bis. E del resto era da almeno due giorni che – di fronte all’evidente impasse – nella maggioranza cresceva l’attesa per una parola chiara di Draghi sulla partita Quirinale, un messaggio per dare il via libera a Mattarella, intestandosi la scelta.

Il premier dunque non esce indebolito da quella che è una oggettiva rinuncia ai suoi piani. Anzi, resta in pole position se dopo il 2023 Mattarella dovesse decidere di fare un mandato breve come Napolitano. E tuttavia la tenuta del governo è tutta da verificare: la Lega è implosa, Giorgetti pensa alle dimissioni, Salvini chiede un vertice a tre col premier e il suo ministro, pure Conte ferito chiede un «chiarimento». Draghi per il weekend è scappato nella sua Città della Pieve ed è andato al ristorante con la moglie. Poi ha seguito lo spoglio da casa. Domani nuovo consiglio dei ministri.