Il governo Draghi investirà 17 miliardi di euro sull’istruzione, nove sull’università e 8 sulla scuola. Questi fondi sono contenuti nel «Piano nazionale di ripresa e resilienza» (Pnnr) e sono stati riannunciati ieri al termine di una «cabina di regia». Entro il 2022 saranno realizzate «sei riforme» e pubblicati i bandi per distribuire, nella scuola, tre miliardi ai nidi che si aggiungono ai 700 milioni già stanziati, i 900 milioni per gli enti nella gestione e gli 800 milioni per la costruzione di nuove scuole. Negli altri bandi si parla anche di «estensione del tempo pieno» e di un «piano per la riduzione dei divari territoriali nella dispersione scolastica». Il 40% dei fondi stanziati dal Pnrr saranno spesi nel Sud. Il 40% di queste risorse sarà «riservata alle donne».

IL PROGETTO intende finalizzare l’istruzione all’impresa attraverso il potenziamento degli istituti tecnico professionali con 1,5 miliardi di euro, ma stanzia fondi insufficienti per l’edilizia scolastica più vecchia e cadente d’Europa con l’eccezione degli asili nido (previsti 228 mila nuovi posti) delle mense e delle palestre. In più seleziona dodici territori chiamati «ecosistemi dell’innovazione» con il rischio di aumentare sperequazioni e diseguaglianze territoriali. Si parla inoltre di una revisione dei criteri di assunzione e carriera con l’introduzione di lauree abilitanti. Non è ancora chiaro in che modo questa «riforma» sarà accolta dagli ordini professionali, né come sarà realizzata quella del reclutamento dei docenti in una scuola che oggi si fonda, per almeno un terzo, sul lavoro dei precari. Previsto anche l’immancabile «aggiornamento permanente» del personale, per di più supportato dal «digitale» ma non si parla di risorse aggiuntive per un milione di lavoratori della scuola con lo stipendio tra i più bassi tra i paesi Ocse.

SULL’UNIVERSITÀ ieri Draghi, in una conferenza stampa con i ministri Patrizio Bianchi (Istruzione) e Maria Cristina Messa (università e ricerca), ha dato ragione al Nobel per la fisica Giorgio Parisi, sostenitore della ricerca pubblica, sul sottofinanziamento dell’università in Italia. Il problema non è però solo la quantità dei fondi, ma anche la logica e le finalità con la quale si gestiscono. Il suo governo punta a concentrare le risorse del Pnrr su cinque «campioni nazionali» e 15 grandi programmi di ricerca fondamentale e applicata sui rischi ambientali, l’intelligenza artificiale e le neuroscienze, la biodiversità. Si punta inoltre a «riformare» i dottorati (previsti 6 mila dal 2021), sempre nella chiave di un coinvolgimento delle imprese. Non si parla di università gratuita per aumentare gli studenti e i laureati, di un piano almeno decennale di assunzione stabile di ricercatori in tutte le università, né di un raddoppiamento del fondo annuale destinato a tutti gli atenei. A ben vedere non si tratta di un’idea universale ed emancipativa della ricerca pubblica alla quale probabilmente pensa Parisi ma una sua torsione verso la competizione e la produttività.

I FONDI per scuola e università saranno gestiti da «sei cabine di regia» per «rispettare il calendario degli impegni» presi con la Commissione Ue, ha detto Draghi. Questo schema di gestione sarà applicato agli oltre 190 miliardi di euro stanziati dal Pnrr. I governi italiani («Conte 2», poi Draghi) hanno accettato regole molto condizionanti, create sul modello del cosiddetto «management per obiettivi» che vincola i fondi a una tempistica molto condizionante. Nel caso in cui il governo, e gli enti locali, non la rispetteranno la Commissione Ue interromperà i finanziamenti. Per anni è stato criticato il «Patto di stabilità», in realtà gestito con criteri più discrezionali di quelli previsti dal Pnnr. Ora che l’«austerità» è passata di moda, e i suoi critici populisti (Lega e Cinque Stelle) stanno al governo con il Pd o Forza Italia che l’hanno introdotta appoggiando il governo Monti, si accettano regole ancora più dure. Magie del draghismo.

LA SCUOLA e l’università, com’è accaduto sin dal 1989 in poi fanno, anche oggi, da battistrada a tutte le riforme neoliberali ispirate ai manuali delle teorie del capitale umano e del «New public management» che hanno forgiato la logica seguita da governi di diverso colore, quello di «centrosinistra» 1996-2001 e quelli successivi di Berlusconi che tra il 2008 e il 2010 hanno tagliato l’istruzione di nove miliardi e perfezionato il sistema della competizione, della valutazione e della trasformazione dell’istruzione e della ricerca in un «quasi mercato» gestito dallo Stato.

DRAGHI non è da meno. Rappresenta la sintesi suprema di una lunga tradizione in una fase diversa. E non solo perché governa con gli eredi delle riforme peggiori, ma perché rilancia l’imprenditorializzazione dell’istruzione e, nel caso dell’università, di trasformazione oligarchica della ricerca, pardon «meritocratica». La didattica e il reclutamento descritti ieri dal suo ministro Bianchi sono un distillato di un’ideologia che parla di «competenze» e «flessibilità» della forza lavoro in un mercato del lavoro dove si lavora sempre peggio e si viene pagati meno.