Circa 17.000 lavoratori a contratto arrivarono nella DDR dal Mozambico alla fine degli anni Settanta, ufficialmente per ricevere una formazione. L’ accordo firmato il 24 febbraio 1979 tra Honecker e Samora Moisés Machel, travestito da «amicizia internazionale», aveva lo scopo di alleviare la carenza di manodopera nella DDR e creare le basi per lo sviluppo del Mozambico.

Molti sono stati sfruttati e crollato il Muro espulsi: ad oggi ancora rivendicano parte di stipendi e pensione, truffati dalla promessa che la paga trattenuta sarebbe stata depositata sul conto una volta tornati in Mozambico ma la verità era altrove. Il governo di Honecker aveva «compensato» i salari con il debito che la giovane Repubblica del Mozambico aveva con la DDR.

Negli anni Novanta la Germania ha dato 70 milioni di euro al paese africano come sorta di risarcimento, soldi finiti in qualche canale di corruzione. Per la Germania il caso è chiuso e tutto il resto rientra nelle questioni interne del Mozambico dove, tuttavia, da trent’anni le manifestazioni di chi cerca giustizia non si placano.

Sullo sfondo di questa storia si innesta quella privata raccontata dal documentario di Brenda Akele Jorde in The Homes We Carry presentato all’ultima edizione del Dok di Lipsia. Eulidio è uno dei tanti mozambicani ripartito al crollo del Muro lasciando la figlia Sarah con la madre a Berlino.

La ragazza conosce il padre per la prima volta a undici anni e torna in Mozambico anni dopo per una esperienza di volontariato quando conosce Eduardo padre di sua figlia Luana che, a sua volta, sembra ripercorrere il destino della madre…Una saga familiare asciutta ma pregna di emozioni dove si vive come stranieri su entrambe le sponde di confini esili.

Alla luce della Storia è stata davvero un’opportunità per i mozambicani vivere nella DDR?

La situazione nel Paese era molto difficile. Dopo l’indipendenza dal Portogallo dal 1977 al 1992 in Mozambico c’è stata una guerra civile; penso che sia stata una buona opportunità partire, vivere in un’altra cultura e guadagnarsi da vivere. Il problema è che le promesse sono state disattese…

Che ruolo ha avuto nel documentario la sua personale biografia?

Il mio personale background di afro- tedesca ha permesso di concentrarmi maggiormente sulla seconda generazione che sui lavoratori a contratto perché anche io sono cresciuta senza il mio genitore di colore e con pochi legami con quella parte di famiglia il che mi ha impedito di percepire la mia identità come persona di colore. Potrei identificarmi con Sarah: entrambe ci siamo rese conto che far parte di due culture è una vera ricchezza anche se non è facile.

Ma è davvero possibile essere parte di due culture senza vivere una perenne contraddizione interiore?

Sarah è cresciuta nella società tedesca e ne è parte anche se c’era e c’è ancora discriminazione. Tuttavia, ha vissuto qualche anno in Mozambico, conosce la lingua, sa muoversi in quei codici culturali, parte della sua famiglia e lì; non vive quella società come turista, naturalmente deve accettare di non essere cresciuta in Mozambico e di avere opinioni diverse. Trovare l’equilibrio di essere sé stessi e adattarsi a un’altra cultura e diventarne parte è difficile ma non è una contraddizione.

Nel suo documentario c’è anche la questione della maternità. Per la madre di Sarah crescerla da sola non è stata una scelta per la figlia sì. Come si lega questo tema agli altri trattati?

Sarah e Eduardo si sono separati quando lei è rimasta incinta e visto che lei vive in Germania aveva senso che la figlia nascesse lì. Il film tratta molti argomenti come l’appartenenza, l’adattamento a un’altra cultura, la mancanza dei propri cari che vivono lontano e a questi si aggiunge anche, sì, quello della maternità.

Come ha lavorato con le fonti e gli archivi?

Abbiamo guardato tutti i filmati inerenti all’argomento, nonché i libri che riportano le diverse testimonianze utili per capire la complessità dell’argomento e la varietà delle storie individuali. In Love Is Not An Orange di Otilia Babara (ora anche al Trieste film festival)un padre dice alla figlia: «Immagina che questa cinepresa sia tua madre».

Negli anni Novanta decine di famiglie della Moldavia hanno iniziato un rapporto di corrispondenza, continuato e ritualizzato, con le madri andate all’ estero, soprattutto in Italia, per lavorare. Inviavano denaro e prodotti dalla terra del benessere per ricevere in cambio videocassette con riprese domestiche. Il documentario di Otilia Babara è costituito interamente da queste registrazioni amatoriali testimoniando il vuoto doloroso lasciato da chi è partito e in molti casi non è più tornato.

Da cosa nasce il titolo del suo documentario?

L’amore è molte cose ma di sicuro è qualcosa che non si può afferrare come qualsiasi altro oggetto. Le arance erano un frutto esotico in Moldavia in quegli anni e le madri, partite per l’Italia o la Spagna, le spedivano alle famiglie. Alcuni bambini pensavano che l’odore della arance fosse quello dei luoghi dove le madri erano andate; c’era sempre molta eccitazione quando lo scatolone arrivava sostituita però in seguito da risentimento…

La memoria nel suo documentario passa attraverso videocassette e immagini d’ archivio

Attraverso gli archivi di famiglia ho cercato di ricostruire una memoria collettiva dell’esperienza migratoria della Moldavia. Ogni persona nel paese ha almeno un famigliare emigrato all’estero per lavoro e questo fenomeno ha plasmato la Moldavia fin dalla sua indipendenza. La storia di ogni famiglia è diversa ma durante la ricerca ho individuato schemi e sentimenti comuni.

Come ha lavorato con le fonti storiche e le testimonianze?

Mentre raccoglievo delle storie qualcuno mi ha detto di aver spedito delle videocassette, mi sono messa a cercarle e abbiamo raccolto circa cento ore di girato. Un materiale dispersivo che, però, ho deciso di far parlare da solo senza voce fuori campo. Allo stesso tempo ho notato che le madri erano letteralmente invisibili e quindi ho sfruttato questo elemento per dare un contesto anche emotivo.

Ha avuto anche lei una esperienza simile che ha inserito nel lavoro?

Personalmente no ma molti miei amici hanno vissuto questa lontananza e questa sorta di corrispondenza. Quando ero bambina provavo invidia per il pacco che arrivava loro ma una volta cresciuti, parlando apertamente di tutto questo, ho capito quanto fossero complesse queste relazioni, quanto difficile vivere l’assenza delle madri e come è stato quasi impossibile riconnettersi dopo anni di separazione. In quel momento ho capito che dovevo fare un film su questo argomento per provare a lenire alcune ferite.