Tra continui viaggi come ufficiale di marina e testi da scrivere, Pierre Loti  non aveva il tempo per rivedere i suoi testi, tanto che è lui stesso a  sottolineare –  nella dedica al viceammiraglio Pottier – come le sue cronache dalla Cina, dopo la terribile rivolta dei Boxer, scritte a caldo per «Le Figaro» nel 1901 e subito raccolte in volume l’anno seguente – possano presentare qualche ripetizione o ridondanza. Il volume, che ci arriva ora nella efficace versione di Maurizio Gatti da Obarrao con il titolo Gli ultimi giorni di Pechino (pp. 240, € 15,00), è un vero e proprio distillato dei propositi dello scrittore-giramondo, nel ruolo di testimone degli universi morenti, che trova un  modello perfetto di Aziyadé, del 1879, e nel suo seguito Fantasma d’Oriente, che nel titolo riassume la visione dell’autore. Sono testi che entusiasmarono Roland Barthes (che ne scrive nel magnifico saggio a introduzione del volume edito da Franco Maria Ricci nel 1971).

Il caos delle truppe inviate dalle sette nazioni europee in sostegno ai connazionali, per reprimere la rivolta e imporre il proprio dominio alla fatiscente Cina imperiale, si annuncia sulla cupa spiaggia di Ning Hai, piena di detriti dei ombattimenti. Da lì ha inizio la personalissima Winterreise di Pierre Loti in una terra sconvolta, dove i i cani sono gonfi dei cadaveri mangiati. Nell’aria un fetore orrendo ammorba, ovunque corpi di cinesi in decomposizione, mentre  le sepolture degli occidentali sono state nascoste in luoghi inaccessibili, per evitare la profanazione. Nell’aria una continua tempesta di neve e di cenere, il bianco e il nero si posano su tutti i corpi. Ma in questo scenario da incubo, Loti sa che lo attende una speciale ricompensa: la visione di luoghi, come la Città proibita, fino a poco prima impenetrabili. La meraviglia, lo splendore, le porcellane bellissime dei Ming, le mille statue degli animali sacri protettori, affiancano le loro immagini a quelle di una quotidianità densa di pericoli, in cui bisogna bollire molte volte l’acqua dei pozzi contaminati e una cassa di Evian è un tesoro.

Notevolissima è la descrizione della città imperiale, a cui Loti arriva dopo un itinerario lungo e pericoloso. Il palazzo offre ancora una debole resistenza per mano degli eunuchi di corte, che si oppongono ai visitatori, ma saranno sgominati a calci dai militari giapponesi. Furono loro a depredare i mille squisiti ninnoli che riempivano le sacre stanze, seguiti dai cosacchi e poi dai tedeschi, che prima dei francesi avevano avuto il compito di custodire gli smisurati edifici. Malgrado tutto l’orrore, la morte in agguato, il continuo cozzare di culture tra loro estranee, Pechino nella visione di Loti è un luogo incantato. Nel disastro degli edifici in rovina,  il commilitone incaricato di tentare un catalogo degli infiniti oggetti superstiti: «ricorda quel personaggio che un Genio cattivo aveva rinchiuso in una camera piena di piume di uccelli del bosco, costringendolo a ordinarle per specie».