Dopo gli annunci sono arrivate anche le anticipazioni. Il nuovo Reddito di Cittadinanza, chiamato MIA (Misura per l’Inclusione Attiva), sarà presentato tra poco, con alcune sostanziali novità in tema di lavoro. I poveri non attivabili continueranno ad avere accesso all’assistenza ma con un sussidio ridotto negli importi e a tempo, per gli altri (i cosiddetti attivabili), oltre alla riduzione degli importi (-30% in media), di nuovo ci sono limitazioni temporali nell’accesso e paletti più rigidi all’attivazione.

Viene estesa inoltre la sospensione del sussidio quando si percepisce un reddito superiore ai 3 mila euro annui a tutti i tipi di contratto. Niente di tutto questo serve a scoraggiare il lavoro nero se questo era l’obiettivo. Andava piuttosto ritoccata l’aliquota marginale che oggi, per ogni euro da lavoro guadagnato, riduce il sussidio di 80 centesimi.

Queste modifiche produrranno certo dei risparmi (2-3 miliardi all’anno si stima) ma i problemi di chi è a rischio povertà nonostante abbia un lavoro rimarranno. Anzi, è molto probabile che aumenteranno, tanto più se a questa stretta seguirà la reintroduzione dei voucher per il lavoro accessorio per un ampio spettro di settori (l’agricoltura, il commercio, ristorazione e turismo solo per citarne alcuni) dove già oggi è radicato un vasto precariato a rischio povertà. I dati li conosciamo e sono preoccupanti. Più dell’11% della forza lavoro in Italia è rischio povertà, una percentuale nettamente al di sopra della media europea (l’8,9% nel 2021), con le punte di maggiore disagio tra i giovani, le donne e nelle regioni del Sud.

Il paradosso è che non si contano così tanti occupati in Italia come oggi, come ha ricordato l’Istat nell’ultimo rapporto sull’occupazione (+465 mila unità rispetto allo scorso anno). Ma non basta aumentare l’occupazione per avere condizioni di lavoro decenti, se quasi la metà dei lavoratori italiani ha contratti scaduti che non vengono rinnovati. E non basta eliminare o dare una stretta al Reddito di Cittadinanza perché gli attivabili trovino un lavoro, né basta dire che sarà rafforzata la formazione. Già oggi i beneficiari devono seguire corsi di formazione.

Lo stesso programma GOL ha tra i suoi target i percettori di RdC. Ma anche con i nuovi corsi di formazione i risultati rischiano di rimanere al di sotto delle attese, specie nelle aree del paese più deboli, dove peraltro la presenza delle agenzie private di collocamento (che entreranno nel sistema di attivazione) è scarsa. E questo per un semplice motivo. Quando la domanda è debole o stagnante, come in molte aree del Mezzogiorno, quando il lavoro pagato poco o sommerso è l’unica alternativa alla disoccupazione, le politiche attive del lavoro possono poco se rimangono slegate da interventi per creare e fare emergere nuova domanda di lavoro.

Negli anni passati la sinistra non si è occupata abbastanza non solo degli ultimi ma anche di molti penultimi incastrati in lavori mal pagati. Nei loro confronti è necessaria una offerta politica più radicale perché sono le fratture e le disuguaglianze che si sono fatte più profonde: non il basso costo del lavoro come unica possibilità di inserimento lavorativo; non bonus di ogni sorta per questa o quella categoria, ma salario minimo e integrazioni fiscali per aumentare le retribuzioni nette di chi è a rischio intrappolamento nel lavoro povero; non il reddito minimo che torna a essere residuale, ma uno strumento in grado di raggiungere anche i beneficiari che un lavoro lo hanno trovato, senza decalage, sospensioni o forme più o meno esplicite di stigmatizzazione sociale; non solo le politiche attive del lavoro quando l’occupazione rischia di essere spiazzata ma politiche per la piena occupazione e investimenti per creare lavoro a partire dai bisogni non soddisfatti e scoperti dei territori, specialmente quelli più deboli o a rischio desertificazione non solo industriale ma anche sociale.

Si tratta di bisogni sociali, ambientali, culturali, legati a filiere territoriali di prossimità che possono incubare nuova occupazione se inseriti in una strategia per trasformare questi bisogni in domanda di lavoro. È questa del resto la filosofia di molti programmi di Job Guarantee che iniziano a essere sperimentati in alcuni paesi europei e che farebbero bene anche all’Italia, in un rapporto con gli attori della società civile e del terzo settore che non guardi semplicemente al sostegno degli ultimi, ma alla ideazione e realizzazione di interventi in grado di rivitalizzare tutto il perimetro del welfare.