Poche ore dopo l’assalto condotto da poliziotti e miliziani contro i rifugiati che da 100 giorni protestavano a Tripoli, l’ambasciatore Ue in Libia José Sabadell ha incontrato il ministro dell’interno del paese nordafricano Khaled Mazen. L’unico legame tra i due eventi sarebbe quello temporale se l’8 dicembre scorso Sabadell non avesse diffuso un messaggio che ha creato agitazione tra i manifestanti. «Siamo molto preoccupati per l’attuale situazione fuori dall’Unhcr Libia, che mette in pericolo le vite di molti e impedisce a Unhcr Libia di svolgere il suo lavoro offrendo assistenza umanitaria ai più vulnerabili. Chiediamo alle autorità libiche di garantire sicurezza e proteggere persone e locali», aveva scritto il diplomatico su Twitter. L’ultima frase è sembrata a molti una richiesta di intervento nei confronti del presidio, dove in quei giorni si erano registrate tensioni tra lo staff Unhcr e alcuni manifestanti.

Due giorni dopo Sabadell è tornato sull’argomento esprimendo «preoccupazione» anche per le «violazioni dei diritti dei migranti, compresa la detenzione arbitraria in condizioni inaccettabili». Troppo poco per cancellare i timori che le autorità di Tripoli potessero sentirsi legittimate ad agire contro i rifugiati.

DUE COINCIDENZE fanno un indizio, ma non una prova. Non sono quindi sufficienti a certificare che con lo sgombero e i rastrellamenti i libici abbiano voluto dimostrare qualcosa alle autorità europee poco prima dell’incontro. Ma non si può neanche escludere. Di certo Sabadell o altri rappresentanti delle istituzioni Ue non hanno condannato pubblicamente il raid, né che Mazen a fine dicembre abbia messo a capo del dipartimento per la lotta all’immigrazione illegale (Dcim) Mohammed al-Khoja. L’uomo, secondo quanto dichiarato dall’inviato speciale Unhcr per il Mediterraneo centrale e occidentale Vincent Cochetel, è inserito nelle liste del Comitato sanzioni dell’Onu.

AL TERMINE DELL’INCONTRO Mazen ha confermato in un comunicato «lo sviluppo di una strategia di cooperazione congiunta con l’Ue per il 2022, che include cooperazione in materia di sicurezza e questioni sostenute dall’Ue che si basano sugli accordi firmati dalle due parti». Tra questi il dossier immigrazione.

Intanto maggiori dettagli sugli effetti del raid sono venuti dalle visite che Medici senza frontiere (Msf) ha condotto nel centro di prigionia di Ain Zara lunedì e martedì. Dopo lo sgombero vi sono stati rinchiusi 565 rifugiati, comprese 21 donne e 56 bambini. «Il team di Msf ha curato persone con ferite da taglio, segni di percosse e altre traumatizzate dagli arresti forzati. Tra loro anche genitori picchiati e separati dai loro figli durante l’evento», ha detto il capomissione in Libia dell’Ong Gabriele Ganci.

GIORGIA LINARDI, responsabile advocacy della missione di Msf nel paese nordafricano, ha riferito al manifesto che nel centro ci sono in totale 1.337 persone, tra cui 194 donne e 333 minori (dati: International Rescue Committee). Gli ingressi massicci di lunedì hanno reso la situazione ancora più complessa: le condizioni di sovraffollamento sono estreme e il cibo scarseggia. «Abbiamo constatato che le persone arrestate durante lo sgombero hanno i documenti rilasciati da Unhcr e ad alcune è stato riconosciuto anche lo status di rifugiato», afferma Linardi.

Il profilo Twitter Refugees In Libya, che dall’inizio della protesta cura le comunicazioni dei manifestanti, ha diffuso ieri pomeriggio un nuovo allarme: nel centro di Ain Zara sarebbero entrati quattro uomini armati e a volto coperto con una lista di nomi dei leader della mobilitazione.