I titoli dei racconti che compongono La conoscenza di sé di Luca Doninelli (La Nave di Teseo, pp. 262, € 17,00) fanno cenno laconico alle vicende narrate e sviano quanto basta il lettore che ritenesse possibile farsene un’idea a priori: «La danza del tempo», «La conoscenza di sé», «La dolce Elisa», «La festa della Liberazione». Sono racconti milanesi di personaggi, comuni e non, còlti nel momento in cui si imbattono in storie nascoste, dimenticate o negate.
I protagonisti (Anna e il dog-sitter, Fernanda e Maurizio, Maria Paola e la vecchia cieca, Gualtieri e Bauer) giungono a percepire le loro vite come parti di storie più ampie, non ancora raccontate compiutamente. Dalla necessità di raccontare si genera un nuovo senso in esistenze che altrimenti sarebbero restate appese al gancio del nulla, pure prede del tempo vorace: «in realtà non si trattava di una storia vera e propria, ma del bisogno di una storia». Nel contesto di una Milano opaca e anonima, dominio di corruzione, ignavia e vizi inconfessabili, Doninelli rappresenta quel che accade a chi riconosce l’occasione di ritrovare la propria storia e portarla ad effettivo compimento. Il risultato ultimo di queste che sono vere e proprie trasformazioni è lo scioglimento del nodo e la riconquista, senza eroismi, dell’autenticità. L’America, più volte menzionata, con il culto del denaro e del potere, rappresenta qui la perfetta antitesi ai personaggi che hanno assistito alla disfatta dei propri idoli e che sono individuati in un poeta barbone che dorme sulle strade di Milano o in un ex professore che si dedica alla coltivazione dei fiori. La terra, la madre terra dimenticata e violata, diventa meta e compenso di chi è giunto a rinunciare all’inessenziale.
Limpidità di tratteggio
La scrittura che Doninelli è venuto via via mettendo a punto, ogni volta con esiti altissimi quanto a limpidità di tratteggio e sapienza architettonica, è intenta anche in questo caso in un dialogo serrato con l’attualità di questioni tanto epocali quanto universali. Il motivo del ‘travestimento’, ad esempio, introdotto con discrezione, presenta in forma dimessa una questione molto profonda che fluisce sotto la superficie di queste storie come un dono prezioso affidato all’intelligenza del destinatario. Il travestimento di una ragazza convinta di essere stata un tempo un ragazzo, diventa segno visibile, pulviscolare, di un processo che ha a che fare con la creazione, una creazione che non è mai terminata.
Il travestimento è la recita continuata di sé, la simulazione messa in campo da parte di chi non è in condizione di affrontare l’abisso della propria tellurica indicibilità e attua l’occultamento del proprio bisogno fondamentale. Nei quattro racconti i personaggi inciampano nella propria vita e cadono perdendo una volta per tutte l’equilibrio che la loro maschera aveva miracolosamente garantito.
Le storie si dispongono ad anello intorno a un centro vuoto, che è il luogo di un addio, di una rinuncia, un atto deliberato con il quale il personaggio salta fuori da un treno in corsa, ovvero da una situazione che gli si rivela di colpo inautentica. Il salto compiuto segna la più forte discontinuità rispetto al passato.
In tutti i casi narrati la trasformazione, l’addio che il personaggio dà al sé precedente, alla maschera consueta e alla illusoria sicurezza che ne derivava, si verifica a seguito di un incontro, di un contatto umano, non importa quanto casuale. Quello è l’evento, quella la rivelazione, che nell’arco di settimane o di decenni agisce fino a scardinare il falso sé che fino ad allora aveva camminato per le strade di una Milano rumorosa in cui tutti sono soli. Milano, la città troppo popolosa «di gente che secondo lui se ne andava tutta per i fatti suoi», dove anche il vento «accresce il senso di solitudine».
Narrazione d’ampia campitura
Doninelli è un maestro della narrazione di ampia campitura: non una parola che non sia strettamente finalizzata al disegno della prospettiva, osservata da un narratore che attua la regressione al punto di vista del personaggio e non si interpone in alcun modo rispetto all’ottica di quel personaggio, che lentamente e senza momenti eroicamente decisivi imbocca la strada irrevocabile di una trasformazione decisiva. Bauer, l’anziano maestro di Gualtieri, dopo che per anni aveva ‘coltivato’ uomini, trascorre gli ultimi decenni in una solitudine piena di pace tra le Alpi svizzere a coltivare fiori e trasmette al suo antico allievo il segreto dell’essere autentico: essere aperti al dono della ‘grazia’ e della bellezza e ritrovare perciò la vera casa. Anche per questo il libro risulta strettamente connesso con il precedente dell’autore, Le cose semplici.
«Ogni bellezza inaspettata, mai immaginata, nasce da un progetto che non sappiamo, fatto non sai da chi, probabilmente da nessuno, ma che vediamo osservando la neve, i cristalli, i fiori, a volte le madri». Il mondo svelato da questi racconti è un mondo che genera bellezza, anche nei luoghi più nascosti e bui, e tutta la felicità possibile consiste nell’accostarsi ai piedi di quella grazia di cui non comprendiamo né la natura né la finalità. E se questo accade anche una sola volta e per un breve momento, in quel momento è custodito un tesoro cui attingere per una vita intera.
Con La conoscenza di sé Doninelli ha innalzato un elogio del silenzio come atto finale e come scoperta di qualcosa di dimenticato che viene riportato alla luce e goduto in piena consapevolezza e gratitudine. E il ‘bisogno’ delle storie coincide con il desiderio di bellezza, all’interno di una dimensione ricondotta a una semplicità perfettamente appagante.