Non parlerò dei fatti perché sono già stati abbondantemente raccontati e commentati, ma delle reazioni. Le molestie e gli abusi che hanno precipitato il produttore Harvey Weinstein dall’Olimpo hollywoodiano alla polvere della vergogna hanno scatenato due partiti: quello di chi si è scandalizzato per i comportamenti di lui; quello di chi, dopo lo stupore, ha detto: «Epperò le attrici potevano dire di no. Epperò non ti puoi stupire se vai a un appuntamento nel suo albergo e accetti di fargli un massaggio. Epperò sono ipocrite perché poi i loro vantaggi li hanno ottenuti».

In Italia, al centro di questo derby del commento è finita Asia Argento che ha raccontato come e perché cadde nelle grinfie di Weinstein.

Invece di apprezzare il fatto che abbia parlato mettendoci la faccia, giù in tanti a giudicare, commentare, eccepire, darsi di gomito, ammiccare infilandola in un tritacarne indegno. Se tutto ciò arriva dai social network che, si sa, spesso e volentieri si trasformano in un vomitatoio, chiudi la pagina e fai altro.

Ma quando certi distinguo arrivano da emerite giornaliste, non si può restare indifferenti. Mi riferisco in particolare a Maria Latella che in un articolo su il Mesaggero ha ricordato che si può dire di no, e poi a Natalia Aspesi, femminista orgogliosa di esserlo, che in un’intervista a Vanity Fair ha detto di trovare infastidente la ricostruzione quasi angelicata degli incontri che mettono il mostro da una parte e l’agnello sacrificale dall’altra, perché a sua memoria i produttori hanno sempre agito così, le ragazze si accomodavano volentieri e consapevoli sul famoso sofà perché avevano fretta di arrivare.

Francamente, mi è sembrato un modo un po’ troppo veloce di leggere una questione complessa. È vero, si può dire di no e la battaglia per ottenere rispetto parte sempre da se stessi. È vero, se ti rendi disponibile al ricatto diventi complice.

Ma perché quando si parla di un uomo che usa il suo potere per ottenere favori sessuali si deve dare solo o soprattutto alla donna il peso e la responsabilità della denuncia? Perché si dice a lei «Dovevi dire di no», invece di dire ai tanti lui «Non è così che si fa»? Perché si dà per scontato che debba essere lei a portare il peso della decisione e non lui a dover agire in modo diverso?

Non è delle donne il problema, è degli uomini che scelgono di comportarsi così. La responsabilità è di chi abusa della propria supremazia, non di chi la subisce. È troppo facile, dopo, dire che si poteva parlare prima e non accettare, perché significa spostare la responsabilità dal colpevole alla vittima e questo vale per tutte le situazioni.

Vale per le violenze che avvengono in famiglia, vale per le vittime di pedofilia, vale per chi subisce ricatti sul lavoro che, oggi più che mai, non avvengono solo nel mondo dello spettacolo, ma in ogni ambito. È quindi del ricatto esercitato da chi ha potere che bisogna parlare perché l’origine del danno è lì.

Qualcuno penserà che, siccome il mondo è andato avanti così per millenni, non c’è rimedio e bisogna rassegnarsi. Sicuri che sia l’unica opzione possibile?