Una strage di migranti a Ragusa e lui sta riunendo i «dissidenti» per aggiornare i conti della fronda nel Pdl. Un’ecatombe a Lampedusa e lui sta bussando al portone di palazzo Grazioli per «riaprire il dialogo» con Berlusconi. Eccoli i vantaggi della stabilità. Il governo è rimasto in piedi, il vicepremier e ministro dell’interno è ancora lì e può continuare a organizzare le sue truppe. Resta il tempo per un pensiero alle vittime.

Poi Angelino Alfano è volato a Lampedusa. Si è soffermato sui cadaveri e ha gridato forti e chiare le responsabilità. Degli altri. Non del suo capo di gabinetto, non questa volta, gli ha già scaricato il peso del sequestro di Alma Shalabayeva. Ma le responsabilità dell’Europa intera. L’Europa che ha imparato a conoscerlo come il ministro dell’interno che non sapeva cosa i funzionari kazaki stavano organizzando dal suo ufficio.

C’è tutto Alfano nel blitz di Lampedusa. L’uomo, commosso davanti ai corpi mentre si informa sull’arrivo delle bare, e il politico che ragiona sulla possibilità che il lutto nazionale faccia saltare la seduta della giunta del senato sulla decadenza di Berlusconi. Il vicepremier che si fa chiamare al telefono il presidente della Commissione europea e il capo fazione berlusconiano che approfitta di una pausa nello scontro interno per studiare le prossime mosse delle «colombe». Dopo la colazione al palazzo del Cavaliere, convoca una conferenza stampa con gli altri ministri «dissidenti». Poi deve arrendersi alle cronache della strage e Letta gli chiede di partire. Oggi riferirà alla camera. Ieri aveva già alcune certezze.

«I pescherecci che sono passati vicino – garantisce – certamente non hanno visto i migranti. Noi siamo un popolo dal grande cuore e l’abbiamo sempre dimostrato». Ma a parte il «sempre», oltre al cuore c’è la legge. Che punisce per favoreggiamento i pescatori che aiutano lo sbarco clandestino. È una legge di cui Alfano è orgoglioso, come lo è del reato di permanenza clandestina sul territorio italiano. L’ha voluto la Lega ma l’ha difesa lui. Da ministro della giustizia si è anche preso la briga di raccomandarne l’applicazione zelante ai magistrati.

Adesso chiama l’Europa, ma quando l’Europa criticava le misure inutilmente securitarie dell’Italia padana, Alfano rispondeva così: «Gli immigrati hanno l’idea che il nostro sia un paese senza frontiere, con questa norma ridisegnamo la frontiera che era stata un po’ scolorita dal precedente governo». E quando Cécile Kyenge, ministra di quest’altro governo, ha proposto l’abolizione della Bossi-Fini, Alfano è rimasto zitto. Ma ha parlato Bossi: «Ieri in aula ho parlato con Angelino, mi ha detto “sono io il ministro dell’interno, la Kyenge può dire quel che vuole ma io non ho nessuna intenzione di toccare la Bossi-Fini».

Per Ragusa non aveva detto una parola, stava litigando con Santanchè. A Lampedusa è arrivato di corsa, per ricordare che lui, all’Europa, gliel’aveva detto. È vero, ma non era il suo «grande cuore» a parlare quel giorno. Le due urgenze che venti giorni fa il ministro dell’interno ha proposto ai colleghi comunitari erano queste: 1) Gli immigrati rifiutano di farsi fotosegnalare. 2) C’è il rischio che potenziali terroristi si nascondano nei barconi. Chissà se ci ha ripensato ieri, mentre nell’hangar dell’aeroporto venivano prese le impronte digitali ai cadaveri, nella speranza di poter dare loro un nome.

«Se avessero avuto un cellulare per segnalare la loro presenza si sarebbero potuti salvare», ha detto ancora il ministro, che con la sua pacata cultura democristiana si contrappone ai «falchi». E uno che parla misurando le parole. E così prima di tornare a concentrarsi sull’emergenza dissidenti e sul punto di equilibrio con Verdini, ha detto: «L’abolizione del reato di immigrazione clandestina non è un’emergenza» e «La legge Bossi-Fini è un punto di equilibrio». E, pacatamente, ha aggiunto anche: «Questi uomini, queste donne, questi bambini non sono morti per venire in vacanza».