«La vita dev’essere così: abbastanza aperta per crescere e abbastanza chiusa per tenersi insieme». In una delle considerazioni finali del suo ultimo libro, Rebecca Solnit descrive l’entrata nell’età adulta ripensando ai suoi vent’anni. È il 1981, cinque giorni dopo l’insediamento di Ronald Reagan, nel vecchio quartiere di San Francisco in cui Solnit individua l’avvio della propria autonomia, trovando un appartamento tutto per sé, respirando gli anni di recessione economica e i mutamenti di una città non comune, di bugigattoli, gospel e rumore dell’oceano.

Ricordi della mia inesistenza (Ponte alle Grazie, pp. 256, euro 16,80, traduzione di Laura De Tomasi) è un memoir che trascina dalla prima all’ultima pagina, per la leggerezza rara posseduta dalla scrittrice, giornalista e storica californiana nota al grande pubblico per il suo fortunato Gli uomini mi spiegano le cose. La visione che l’ha resa originale osservatrice di paesaggi vastissimi, cieli cangianti e peregrinazioni politiche e del pensiero, è quella del femminismo, passando per la preliminare coscienza di un ordine sociale che a diversi livelli tende a escludere le donne dalla scena pubblica. La misoginia e il sessismo di cui Solnit ha scritto a più riprese, la totale cecità – tra il patetico e il ridicolo – con cui si è misurata, sono ulteriori passaggi che ha restituito con ironia, acume e forza, proprio dal suo scoprirsi donna in relazione alle cose del mondo. E se non si ha una visione del mondo, se si è prive di immaginario generativo – aggiunge – non si può neppure diventare scrittrici.
Questi ricordi ci sono allora ancora più cari e utili perché l’autrice affonda nell’accadere esperienziale, quello per cui prima di farsi avanti, di sapere ciò che desidera essere, registra il proprio privato sprofondo fino ad arrivare a una esigenza di emancipazione prima e di libertà poi. La scoperta della propria fragilità è qui fondante; nella separazione dalla propria famiglia, Solnit mappa una nuova consapevolezza di sé che comincia dalla solitudine di un corpo, il proprio, che per la prima volta le sta frontale.

È TUTTAVIA LA STESSA CITTÀ e il modo di percorrere quelle strade così situate che ci fa riconoscere la lungimirante perlustratrice di un altro suo testo del 2000, Storia del camminare. L’azione di un passo davanti all’altro non è mai fisico bensì è esercizio pensante che disvela un perimetro meditativo e rituale; è il camminare per Solnit «l’atto volontario più vicino ai ritmi più involontari del corpo: il respiro e il battito del cuore». Nel crocevia di luoghi, di strategie per non essere sopraffatte e per destreggiarsi dinanzi alle trappole del rancore (soprattutto maschile), Rebecca Solnit illumina forse il tema più importante che fa attrito con il senso comune secondo cui siamo costretti a una costante produzione, a un costante automatismo in cui la mente resta talvolta impigliata nell’arrovello di sé o nella inconsistenza di una erosione. Ricordi della mia inesistenza è infatti una investigazione sofferta sulla presenza a se stesse. E per trovarla, custodirla, covarla e sentirla non si può non toccare la propria scomparsa, la paura primigenia di sapersi senza armature. Priva di questa esperienza precedente, sarebbe certo più difficile capire in che modo abbia deciso un giorno di inaugurare la festa del mondo, come sia passata dal silenzioso «giardino di resti» alla vertigine parlante che la vede attivista politica dei movimenti fin dagli anni Ottanta e Novanta, frequentatrice della comunità lgbqt, attenta cronista della diffusione dell’Aids, infine grata dell’amicizia delle sue simili.

Del suo muoversi nel tempo della storia, tra aneddoti e brevi incursioni avanti e indietro, ora Solnit ci consegna i prodromi, la solitudine incarnata di questa somma negazione dell’apparire, prima da ragazzina che non si dà pace davanti a uno specchio, poi crescendo nello sfuggire all’incuria di uno sguardo maschile bulimico che a più riprese vorrebbe sussumerla. Esplicita, Solnit, ciò di cui Audre Lorde avvertiva nella sua Litania della sopravvivenza, scritta nel 1978 «Per quelle di noi che vivono sul margine / ritte sull’orlo costante della decisione». L’esplorazione dolente di non comparire è qui dispositivo ben più articolato che determina la prima rottura salvifica da una famiglia violenta, infine il taglio obbligato che comincia a ordinarsi dalla scarsità in cui vive, tra lavoro studio e scrittura. Il termine «inesistenza» del titolo è però fuorviante, si tratta piuttosto di allestire la propria assenza, prepararla, avere il privilegio di controllarla, calibrarne le pause ancora prima che qualcun altro le imponga. È attesa capace di acquattarsi per prendere le misure del tempo e dello spazio di libertà: «Ciò che volevo sopra ogni cosa era la trasformazione, non della mia indole ma della mia condizione».

Emilie Pine

COSA SIGNIFICA possedere dello spazio, sapere che se il proprio corpo di giovane donna è un disastro di fantasmi e accadimenti pur sempre non può essere ignorato all’infinito? Significa barattare la fame, dopo l’indigestione del disamore e dello scacco di una imprevedibile tensione a esistere, malgrado tutto. Per Rebecca Solnit significa essere udibili, essere credibili e avere peso. «Le parole possono essere piccoli fuochi dai quali trarre conforto». Ed è esattamente ciò che capita anche a Emilie Pine nel suo esordio letterario, Appunti per me stessa (Rizzoli, pp. 203, euro 17, traduzione di Ada Arduini), memoir in cui racconta proprio quanto uscire allo scoperto sia determinante, dopo anni in cui si ritiene di dover continuare a giacere nelle sabbie mobili; trovare le parole aiuta a scaldare il gelo di una origine.

Lo specchio attraverso cui si riflette la scrittrice irlandese è però diverso da quello in cui la giovane Solnit si osservava deforme e moltiplicata a più riprese in un negozio di scarpe qualsiasi. Pine sa che l’occhio interno non consente di immaginarsi troppo a lungo senza radicamento, il limbo in cui ci si incanta a notarsi sbilenche prevede l’indagine necessaria e scomoda della propria famiglia. La scrittrice sa che per rivoltare i propri margini, per arrivare a contattare il proprio spazio, il circostante – di una città di un mondo grande di una stanza – si deve ascoltare il proprio corpo. In ciò che fa problema, che rimane nell’ombra e che riguarda lei e molte altre. È grazie a questa ispezione, colma di carenze e asperità, che Emilie Pine incontra la scrittura per dire l’impronunciabile senza troppe smancerie consegnando sei brevi storie che sono in effetti cascami della sua biografia spaccata. Diagnosi e guarigione di quella antica struttura, prima bambina e poi adolescente fino all’età adulta di oggi, non possono non considerare il tracimare famigliare in cui è vissuta. La tenerezza verso un padre e una madre entrambi incompetenti, sia pure per aspetti differenti. Parlare con spietatezza del proprio corpo, delle esperienze del sangue, dello stupro subito due volte da adolescente che riesce a chiarire a se stessa solo decenni dopo, la ricerca di un figlio che non arriva o se invece arriva poi si perde, sono tutti elementi, ci dice, che appartengono a quella «sorellanza crudele» di non sentirsi presenti mai del tutto. Anche qui, come per Solnit, il processo di individuazione di sé passa per uno slittamento della presenza. E non è gentile né delicato.

UN PADRE ALCOLISTA e poi cirrotico da accudire, in diverse età della vita, un genitore infantile e depresso che una sera telefona per annunciare alla propria figlia piccola che si vuole uccidere. Una madre che non si accorge di moltissime cose. Una sorella alleata. E il coraggio della liberazione di Emilie Pine nel dichiarare fedeltà al proprio desiderio come regno della espansione, della reale e definitiva cesura, sempre nella paura di non sentirsi adeguate, amate, del proprio sangue di donna e scrittrice che non somiglia per niente a quello del trionfo di uno scrittore con davanti una pagina bianca. Allora questa presenza, di corpi sgraziati, etichettati, sezionati, e poi ancora guadagnati a caro prezzo da ciascuna, congeda la vergogna dell’oppressione perché la si è saputa abbracciare. Come quella volta sì, ognuna ha avuto il proprio debutto, in cui si è deciso che «è meglio parlare / ricordando / che non era previsto che noi sopravvivessimo».