Leggo l’intervista su Montanelli a Gabriele Albertini, l’ex sindaco di Milano, pubblicata il 14 giugno dal Corriere della sera e mi sembra di vivere su un altro pianeta. Albertini, per chi non se lo ricorda, è il politico di destra responsabile della statua dedicata a Montanelli a Milano nel 2005 e nell’intervista presenta l’editorialista addirittura come un «un gigante del pensiero e dei valori morali applicati e testimoniati».  Sembra di capire che tra questi valori Albertini ponga anche quello che lui chiama il «matrimonio con Destà», vale a dire l’acquisto che il giornalista  fece durante l’aggressione italiana all’Etiopia di una ragazzina di dodici anni per usarla come schiava sessuale, e che lui difese fino alla fine dicendo che lì era quel che facevano tutti.  Si ripete – da non credere – la fandonia del bravo colonialista che si adatterebbe ai costumi locali, e che anzi non imporrebbe i propri valori, quasi fosse un antropologo che non fa altro che abbracciare le culture indigene.  Si potrebbe riderne, se non fosse che sono argomentazioni che vengono proposte con gran serietà su un giornale ancora letto da molte migliaia di persone.

Non si sa se ci sia più ignoranza o cattiva fede dietro a queste parole ed è preoccupante che un giornale come il Corriere della sera le pubblichi nel 2020 senza distanziarsene in alcun modo (anzi, uno dei suoi editorialisti negli scorsi giorni non ha fatto che difendere la statua dalla presunta intolleranza dei contestatori).  Chi difende a spada tratta Montanelli si è forse dimenticato di leggere quei pezzi in cui ancora nel 1968 si opponeva ai matrimoni «misti» (proprio lui!) o quelli in cui continuava a negare contro l’evidenza e fino alla morte l’uso dei gas durante la guerra d’Etiopia, o gli articoli e i libri in cui «normalizzava» il fascismo, presentandolo come una dittatura «mite».  Un bell’esempio di moralità, un grande esempio per un paese democratico.  Come tanti altri italiani, Albertini non ha mai fatto i conti con il passato colonialista e razzista del proprio Paese, le cui pesanti eredità continuano a farsi sentire nel vergognoso trattamento razzista a cui vengono sottoposti i lavoratori africani in Italia. Ce ne sono molte di persone come Albertini in Italia, un paese democratico in cui Mussolini continua ad avere un folto seguito di aficionados che vanno ogni anno in pellegrinaggio alla sua tomba.  Montanelli, fascista convinto ai tempi della dittatura, nel postfascismo fece la sua carriera di giornalista come anti-comunista e anti-antifascista, riabilitato in extremis dalla sua opposizione a Berlusconi.  Pochi, purtroppo, quando gli fu eretta la statua obiettarono.  Ma è necessario ricordarsi che è un simbolo di parte, non di tutti.  Perchè scandalizzarsi se c’è chi lo contesta?

Scrivo queste parole a New York, dove vivo, mentre dolore e rabbia si sono di nuovo impadroniti di me e di tanti altri/e alla notizia dell’uccisione senza senso di un altro afro-americano ad Atlanta, Rayshard Brooks, da parte di un poliziotto bianco.  Quanti ancora dovranno morire a causa del comportamento violento e razzista della polizia americana? Le proteste delle ultime settimane hanno messo in evidenza, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che si tratta di un problema endemico e strutturale, un’eredità della lunga storia razzista di questo Paese che continua a dare la propria forma al presente.  Ma il movimento che si è sviluppato dopo la morte di George Floyd sta cambiando il clima e la conversazione nel Paese e parole d’ordine che potrebbero sembrare rivoluzionarie come «defund the police» (che non vuol dire eliminare la polizia ma devolvere una parte delle enormi somme che vanno ai poliziotti ad altre istituzioni) sono ora oggetto di regolare dibattito nei media. Bisogna ringraziare Black Lives Matter per aver dato slogans e leadership a queste proteste.  Va ricordato che il movimento fu fondato sette anni fa da tre donne afro-americane – Alicia Garza, Patrisse Cullors e Opal Tometi – dopo il verdetto che assolveva il vigilante che aveva ammazzato Trayvon Martin, un ragazzo di diciassette anni, in Florida grazie a una legge che dava un’amplissima interpretazione all’auto-difesa. Il movimento è cresciuto dopo altri atroci episodi di brutalità da parte della polizia tra cui l’uccisione di Michael Brown a Ferguson, Missouri, e di Eric Garner a New York nel 2014.  Ma è solo con le ultime proteste che ha finalmente acquisito una forte dimensione nazionale e molti sostenitori anche tra i bianchi.

Anche negli Stati Uniti, la protesta si è estesa, come già in precedenza, ai simboli di pietra, per esempio a quelle statue che in un periodo in cui imperversava la segregazione razziale, vennero dedicate ai generali dell’esercito della parte del Paese che durante la Guerra civile difendeva la schiavitù.  Furono erette, in altri termini, al tempo in cui i bianchi del Nord e del Sud di questo Paese si riconciliarono tra di loro sulla pelle degli afro-americani, che videro i loro diritti completamente negati nonostante l’abolizione della schiavitù.  Sono il segno di un passato vergognoso che ha lasciato delle pesanti eredità, con cui molti anche qui non vogliono fare i conti.  Del resto è un Paese che pur avendo costruito un imponente museo alla sterminio degli ebrei d’Europa non ha mai dedicato un museo alla storia del razzismo e della supremazia Bianca in America.

I simboli, lo sappiamo, sono importanti.  È la storia che ce lo ricorda.  E la storia in questi giorni è rappresentata dal movimento che dice basta alla violenza razzista, anche a quella che si trova incorporata nelle statue dedicate a chi sosteneva un sistema razzista.  Non è un concetto difficile da comprendere.  Come la popolazione di una collettività cambia e si modifica, così devono cambiare necessariamente anche i suoi simboli e le sue narrazioni.  Tutte le società che hanno partecipato al colonialismo e in cui la popolazione, se mai è stata omogenea, ha ormai una pluralità di origini e di storie, devono affrontare questo cambiamento.

Per tornare all’Italia è bene ricordare – come è stato fatto nei giorni passati – che fu una femminista Italiana-eritrea, Elvira Banotti, una delle fondatrici del Gruppo «Rivolta femminile», a contestare nel 1969 a Montanelli le sue compiaciute affermazioni sul suo cosiddetto «matrimonio» con la bambina. Lo fece durante un episodio di una trasmissione intitolata «L’ora della verità», e mise in seria difficoltà il giornalista sottolineando come in Italia il rapporto sessuale con una ragazza di dodici anni sarebbe stato definito uno strupro. Non risulta che i giornalisti uomini sollevassero obiezioni allora, e ancora oggi spiace vedere come si ergono a spada tratta e in maniera trasversale a difesa della brutta statua e di chi quella statua rappresenta.  Non certo un esempio per le nuove generazioni che faranno bene a ignorare sia il personaggio che la sua likeness.  Sono altri gli esempi da seguire per costruire il mondo di domani.  E forse in quel mondo ci sarà qualche statua in più dedicata a una donna. Lo statuario odierno per qualche motivo ne include assai poche.

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Silvana Patriarca, ha intrapreso una brillante carriera accademica negli Stati Uniti e attualmente insegna Storia europea contemporanea alla Fordham University di New York. È autrice di saggi e recensioni apparsi in varie riviste italiane, inglesi e americane. Tra le sue pubblicazioni: Italian Vices. Nation and Character from the Risorgimento to the Republic (Cambridge University Press, 2010; Laterza 2014).