«Vogliamo abolire il Jobs Act. Quanto all’articolo 18, crediamo che sotto i 15 dipendenti non serva per imprese che sono a conduzione familiare. Per il resto, vogliamo ripristinarlo». L’annuncio è arrivato ieri da Luigi Di Maio, nel corso della tappa milanese del lungo tour elettorale. Le sue parole giungono nel giorno della protesta della Cgil. E dopo che da giorni Alessandro Di Battista, in giro a presentare il suo libro e a promuovere la sua prossima nuova vita di «politico fuori dal parlamento», cita come un tormentone proprio l’abolizione dell’articolo 18 ad opera del Pd come prova che non ci sia motivo di parlare ancora di destra e sinistra.

C’è da dire che la promessa di Di Maio suona tutt’altro che scontata. Il M5S aveva rifiutato di convergere in Commissione lavoro della Camera dalla proposta delle formazioni a sinistra del Pd sull’articolo 18. Le motivazioni parevano pretestuose. I grillini si ritiravano per questioni più di posizionamento che di merito, in quella fase interessati a sfilarsi dal corteggiamento di Mdp per marcare la loro autonomia. Di Maio, oltretutto, da alcune settimane pare più intenzionato a rassicurare l’establishment che a marcare distanze. Aveva esordito, all’indomani della sua nomina a capo politico e candidato premier del M5S, lanciando l’idea dell’Italia come «smart nation», definizione analoga a quella utilizzata da Emmanuel Macron. Allo stesso Macron, peraltro, il leader 5 Stelle aveva scritto per manifestargli vicinanza circa la sua idea di Europa rinnovata. In seguito, da Washington, Di Maio si era detto interessato alla riforma fiscale di Donald Trump. Carla Ruocco, Laura Bottici e Carlo Sibilia avevano incontrato i rappresentati di alcuni dei più grossi fondi d’investimento e di banche d’affari.

C’erano Brevan Howard Asset Management, Moore Capital Management, Wellington Management Group, Bank of America e Amundi. «Ci stanno trattando come una potenziale forza di governo» ha commentato a Bloomberg Ruocco, che viene considerata una delle referenti tra i grillini sui temi economici. Sulle stesse questioni, Di Maio ha cooptato nella sua squadra Stefano Buffagni, consigliere regionale lombardo considerato in buoni rapporti con il mondo delle imprese. È lui che ha accompagnato l’aspirante premier a incontrare le associazioni di categoria di imprenditori ed esercenti del nord. Lo stesso Buffagni non ha partecipato alla corsa delle regionarie, tenutesi nei giorni scorsi: ha fatto sapere che non ha intenzione di ricandidarsi in Lombardia, pronto al salto verso il parlamento nazionale. Del resto, appena cinque giorni fa la Cgil aveva incontrato una delegazione di deputati grillini, registrando sintonie nella critica al provvedimento del governo sull’età pensionabile.

Nel «programma lavoro» approvato sulla piattaforma Rousseau nell’aprile scorso, peraltro, si menzionano la riduzione dell’orario, la democrazia sindacale e la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’azienda ma non si fa nessun riferimento all’articolo 18.
Soltanto il giorno prima dell’annuncio di Di Maio, la Federazione nazionale della stampa lamentava il licenziamento da parte dei 5 Stelle di 39 dipendenti della Camera, reso possibile proprio grazie alle norme dell’odiato Jobs Act, attaccando duramente la «doppia morale» dei grillini. Reazione altrettanto dura dal M5S, che ha invitato il sindacato dei giornalisti a occuparsi dei «giovani precari senza contratto».