La zuppa del diavolo di Davide Ferrario è un film costruito con documentari industriali e materiali audiovisivi dell’archivio nazionale del Cinema d’Impresa di Ivrea che racconta il sogno di progresso dell’Italia del dopoguerra, spezzatosi negli anni ’70 con la crisi petrolifera e l’emergere dell’ecologismo. Il titolo è stato rubato a Buzzati, per esprimere le contraddizioni insite nell’idea – tra zuppa, e quindi nutrimento, e ingredienti pericolosi, demoniaci, come l’acciaio infuocato che esce dagli altoforni; ambiguità che avrebbero trasformato quell’agire industriale, nato come sogno negli anni ’50, negli incubi di oggi.

Il film propone materiali di grande interesse e in certi casi di autentica bellezza, come il lunghissimo carrello che mostra la costruzione dell’Ilva a Taranto, dall’alto, accompagnato dalle musiche di Fabio Barovero. Ci sono anche le immagini inquietanti delle ruspe che abbattono olivi secolari per costruire l’Italsider a Taranto, oppure la «bizzarra» decisione della Fiat di affondare delle carcasse di auto incidentate nel mare di Varazze, come rifugio per i pesci. C’è una documentazione visiva delle campagne trasformate in città e dei contadini che diventano operai, o dei montanari che montano le linee elettriche su enormi tralicci.

Perché naturalmente il film parla anche dei lavoratori, della loro energia e della fiducia che ripongono in questa idea di progresso, ad esempio gli operai del petrolchimico di Gela, un’immagine del lavoro che oggi invece gronderebbe sofferenza e preoccupazione.

Questi filmati sono stati selezionati da un primo gruppo di 130 titoli, utilizzandone poi una cinquantina, a loro volta frammentati e aggregati dalla montatrice Cristina Sardo, con l’idea di mantenere la natura dell’oggetto, senza censure, o ironia. «Il cinema è il montaggio» argomenta Ferrario, non per rimandare allo specifico filmico, ma per dare testimonianza del proprio modo organico di intendere il cinema che fa, sia finzione, documentario creativo, o di found footage. L’unico criterio nel montaggio è stato dunque quello di rispettare la natura del materiali, di non fargli dire altro.

Il film non ha una narrazione didascalica, ma propone in voce fuori campo le preoccupazioni di intellettuali e scrittori, come un controcanto, un commento critico, sottolineando insieme la costruzione corale di questo mito del progresso e i dubbi che serpeggiano al di sotto.

Preoccupazioni ambientaliste non erano ovviamente presenti nei materiali; al contrario nel segmento delle perforazioni petrolifere in Nigeria si parla trionfalisticamente di «domare la natura» riproponendo l’idea leopardiana di una natura maligna, di un ostacolo da vincere; eventualmente si trova l’idea che la macchina potrà sottrarre potere all’uomo, ma Franco Fortini, scrivendo per la produzione Olivetti, sostiene convinto che la tecnologia si vince con miglior tecnologia, il progresso con più progresso.

Dopo essersi immerso in queste immagini del passato, Ferrario nota come prima ogni decennio avesse il suo look mentre oggi il digitale appiattisce le differenze, non c’è un cambio di look nell’immagine della società. Si può capire la crisi solo se si guarda indietro, ma come osserva Bocca: «Tutte le cose che ci appaiono orrende, allora ci sembravano bellissime: il Natale della Rinascente, l’ingorgo, il consumismo dirompente. C’era una specie di patriottismo del miracolo…»