Nel mondo editoriale francese la parola «rentrée» ha un unico significato: la massa di novità che da fine agosto si abbatte sui banchi delle librerie e segna il panorama culturale dell’autunno. In inglese un termine equivalente manca, ma il fenomeno c’è e quest’anno ha proporzioni enormi, tanto da evocare la logora metafora dello tsunami.
La data fatidica, quella che librai e editori britannici aspettano con ansia crescente, come inermi osservatori su una spiaggia tropicale, è il 3 settembre.
Alex Clark dell’Observer ha descritto bene la situazione: «Quel giorno, per una concatenazione di fatti che provoca l’angoscia di librai, redattori, recensori e lettori, usciranno quasi 600 nuovi titoli, circa un terzo in più rispetto all’anno scorso. Un conto è un mercato affollato, un altro è questa cosa: una valanga di parole per la quale in nessuno spazio commerciale si potrà trovare posto».
La colpa naturalmente è del Covid-19, che ha rallentato le uscite nei primi mesi dell’anno, facendo sul suo percorso piazza pulita di tanti festival letterari estivi. D’altronde le case editrici non possono rinviare al 2021 – molto incerto, oltre tutto, dal punto di vista della pandemia – l’intera programmazione. Di qui la strozzatura, che avrà effetti prolungati, dato che il 3 settembre è solo il primo di una serie di super-giovedì carichi di novità librarie.
A patirne le spese sono in primo luogo le librerie, costrette a scelte rigorose: «Faremo quello che facciamo sempre: sceglieremo i libri che pensiamo piacciano ai nostri clienti e quelli che possiamo onestamente consigliare», ha twittato il punto vendita londinese più importante della catena «Waterstones», affacciato su Piccadilly. E se la selezione sarà complicata per una grande libreria nel centro di Londra, figurarsi per quelle piccole e indipendenti in periferia.
Tempi duri pure per i recensori: «Settembre è sempre un mese difficile, ma stavolta è pazzesco», è il commento di Andrew Holgate, responsabile delle pagine libri del Sunday Times, citato da Alison Flood sul Guardian. Certo, gli autori più famosi, come Martin Amis, Robert Harris o Elena Ferrante, avranno diritto alla loro quota di segnalazioni, ma per gli esordienti e i meno «facili», il rischio di restare invisibili in questo magma di scrittura è molto alto.
A proposito di invisibilità si è scritto parecchio, ancora sui media britannici, di Reclaim Your Name, una collana di 25 libri scaricabili gratis dalla rete e che hanno un dato in comune: al tempo della loro prima uscita le autrici, tutte donne, assunsero pseudonimi maschili. Così oggi per la prima volta sulla copertina di Middlemarch figura il nome Mary Ann Evans (e non George Eliot) e su quella di Indiana Amantine Aurore Dupin (e non George Sand): un modo – ha dichiarato alla Bbc Kate Moss, direttrice del Women’s Prize for Fiction, cui si deve il progetto – «per dare alle donne maggior potere… facendo sì che abbiano il giusto riconoscimento».
C’è chi non è d’accordo: per Olivia Rutigliano su LitHub «il femminismo volenteroso ma goffo dietro l’iniziativa» ignora che l’uso di uno pseudonimo maschile spesso fu una scelta, anche perché «è un’idea comune ma errata che le donne dovessero nascondere la propria identità» (vedi i casi di Mary Wollstonecraft o di Elizabeth Barrett Browning). «Ignorare le articolazioni storiche dell’autonomia delle donne, gli intenti autoriali e perfino l’identità di genere in un avventuroso tentativo di revisionismo storico è in definitiva la cosa più patriarcale di tutte».
Una questione complessa, e purtroppo non possiamo interpellare Mary Ann Evans/George Eliot per avere la sua opinione.