La Francia settecentesca di Robert Darnton è un mondo quotidiano fatto di piccoli commercianti e di commessi viaggiatori, di cibi, di odori, di fango e di grasso animale, ma soprattutto è un mondo fatto di libri. Libri come oggetti d’uso, ben lontani da quella dimensione auratica in cui spesso gli studi storici sembrano confinare la letteratura dell’epoca dei Lumi e presentati invece come corpi di carta e inchiostro, pagine da sfogliare, dorsi da accarezzare, prodotto ultimo di una filiera complessa e articolata: attraverso le sue parole l’Encyclopédie, ancora prima di essere il monumento culturale che tutti conosciamo, appare come una delle più avvincenti imprese editoriali del secolo, la vendita clandestina di pubblicazioni pornografiche si rivela un motore potentissimo di propaganda antimonarchica e il malcontento dei tipografi parigini nei confronti dei gatti ben pasciuti dei loro padroni non è altro che una prospettiva privilegiata per osservare la crisi economica francese all’alba della Rivoluzione.
Nessuna sorpresa quindi che il suo ultimo studio, appena uscito in Italia per Carocci, Un tour de France letterario Il mondo dei libri attraverso la rivoluzione francese (traduzione di Maurizio Ginocchi, pp. 376, e 31,00) sia ancora una volta un libro fatto di libri, che regala al lettore uno sguardo approfondito sulla produzione editoriale francese negli anni tra il 1769 e il 1789.

Una doppia lettura
Il testo è il risultato di una attenta catalogazione di uno dei fondi editoriali più ricchi che rimangono oggi in Europa: l’archivio della «Societé typographique de Neuchâtel» (una tra le case editrici all’ingrosso più importanti nella Svizzera del XVIII secolo). Composto da circa 50.000 lettere e da centinaia di registri contabili che Darnton ha consultato, fotografato, ricopiato in quasi cinquant’anni di lavoro, l’archivio è una montagna documentaria che costituisce – come sempre per gli studi storici – la base su cui potersi appoggiare per guardare dall’alto l’orizzonte e per formulare qualsiasi ipotesi interpretativa. In questo caso però, c’è una differenza. Nel saggio di Darnton, la montagna – che pure esiste in tutta la sua imponenza – è stata sottratta, non si vede. Dei materiali che hanno portato a costruire il testo, non c’è traccia. Nella prefazione al libro Darnton invita infatti a una doppia lettura, rinviando gli studiosi interessati al suo sito web di documenti in open access e lasciando per l’edizione cartacea soltanto la vetta della montagna, ovvero un saggio fatto di una scrittura rapida, limpida, perfetta.

Con questa doppia andatura Darnton polverizza così ogni dicotomia tra divulgazione e accademia – dicotomia in cui è rimasta intrappolata per anni la nostra saggistica – regalandoci un testo alto e nello stesso tempo accessibile, uno studio autorevole e nello stesso tempo, sono parole dell’autore, una storia avvincente come un racconto di Balzac.
All’interno del materiale composito dell’archivio di Neuchâtel è presente un faldone più ampio degli altri: racchiude le lettere che la Società tipografica ha scambiato con uno dei propri commessi viaggiatori, un impiegato ventinovenne di nome Jean-François Favarger. «Il giovane Favarger il 5 luglio 1778 montò sul suo cavallo per un viaggio di 5 mesi attraverso la Francia visitando quasi tutte le librerie che si trovavano sul suo percorso: vendette libri, riscosse pagamenti, organizzò le spedizioni della merce, ispezionò le tipografie, sondò i mercati, valutò le attività e il carattere di un centinaio di librai e una volta tornato a Neuchâtel, nel novembre successivo, Favarger ne sapeva di più sul commercio librario di quanto possa mai auspicare uno storico».

Seguendo passo passo il Tour de France del commesso Favarger, Darnton spalanca al lettore il panorama di un mondo in cui ogni volume in pubblicazione doveva essere esaminato da una commissione censoria con il privilegio reale del «visto si stampi» e in cui i libri non si spedivano alle librerie già rilegati, ma suddivisi in singoli fogli che venivano piegati insieme e riuniti in grossi pacchi chiamati «balle». Ogni foglio in-ottavo (che conteneva 16 pagine di testo) sarebbe poi stato piegato direttamente dal libraio per formare un fascicolo, diversi fascicoli sarebbero stati cuciti insieme a creare un libro e il libraio avrebbe messo una copertina di maggiore o minore pregio a seconda di quanti soldi potesse spendere ognuno dei suoi acquirenti.

Dentro questi grossi pacchi che attraversavano la Francia su carri pieni di fieno o portati a spalla da ragazzini lungo le montagne, era molto semplice infilare pubblicazioni illegali nascoste nel fondo dell’imballaggio coperte dalla paglia, oppure far passare fogli proibiti mescolati a fogli legali in un «matrimonio» (questo era il termine cifrato) che soltanto un libraio accorto avrebbe potuto riconoscere.

Il denaro propulsore
L’editoria settecentesca, per sua stessa natura, è un mondo di contrabbandieri. I libri illegali che circolano in Francia nel XVIII secolo non sono soltanto volumi dai contenuti poco ortodossi (gli scritti dei philosophes in testa), ma sono tutte quelle opere che vengono stampate e diffuse al di fuori della censura reale e in libera concorrenza con la lobby degli editori parigini. Se oggi un bestseller è un libro che fa tirature altissime con un unico editore, nel Settecento i titoli di successo si riconoscevano dal numero di case editrici non autorizzate che li ripubblicavano a più riprese dentro e fuori il suolo francese.

I Paesi Bassi e la Svizzera sarebbero diventati centri attivissimi di produzione e diffusione di libri di contrabbando e la Societé typographique de Neuchâtel è uno degli esempi più illustri di questo sistema di economia libraria a doppia andatura. Vista dalla prospettiva di un commesso viaggiatore, la letteratura settecentesca appare così meno grandiosa e certamente più articolata di come ci è stata mostrata finora: contrabbandieri ubriachi che perdono balle di libri lungo crinali innevati, locande sporche e piene di topi, cavalli che si ammalano e fanno ritardare le consegne, librai inseguiti dai creditori, doganieri corrotti che non controllano il carico in cambio di soldi, formaggio e qualche buona bottiglia sono avvenimenti all’ordine del giorno. Molto più degli ideali illuministi, è il denaro il propulsore per la diffusione della cultura all’interno della rete territoriale francese settecentesca. Come in un romanzo di Balzac, appunto.