Dettaglio di Pontormo, “Deposizione”, Firenze, Santa Felicita

 

Che volume singolare e raro ha mandato in stampa la casa milanese Postmedia Books, forte di un’etichetta già riconoscibile – sia per formati, sia per temi – sugli scaffali di estetica e storia dell’arte; libro che, offerto al pubblico nel candore immacolato di una copertina azzeccata, ha invece il sapore – familiare e intimo – del carnet privato, dei materiali custoditi con cura nei cassetti delle scrivanie ma ordinati soltanto dall’esercizio intermittente del ricordo: Dario Trento Una storia aperta (pp. 204, 47 ill., euro 19,00)
Appunti mal scritti, lettere mai spedite, messaggi inviati da lontano, buste ingiallite con francobolli da collezione, schizzi leggeri tracciati fra le pieghe all’angolo di un foglio, origami distratti e sghembi, foto iscritte sul retro, scatti persi nel tempo, documenti ormai inutili con volti troppo giovani e timbri obsoleti, stralci di giornale senza data e senza titolo: di queste ‘carabattole’ affettuose e necessarie, cariche di umanità, tiepide di vita, si rimpingua la smilza collettanea consacrata alla memoria di Dario Trento, figura di ricercatore affabile ed elusiva, autore di una bibliografia coerente e solo all’apparenza disordinata, voce inconfondibile per il panorama italiano che va dagli anni ottanta al secolo nuovo; testimonio insomma della svolta del gusto che negli studi affrontò la via nostrana al postmoderno, organizzando un nuovo senso della storia, delle assenze e delle permanenze, un rapporto originale col passato e con gli strumenti della creazione, dell’analisi testuale e figurativa.
Si deve alla bella sensibilità di Elisabetta Longari, già al fianco di Trento nelle aule di Brera, un’iniziativa a tal punto generosa, che – chiamando a raccolta amici e colleghi – si è prefissa di restituire un ritratto, non esaustivo e tuttavia veritiero di quella carriera originale di conoscitore e critico, delle qualità dell’amico e del professore; un profilo – lo si è accennato – sfuggente per timidezza antica, per elegante understatement ma determinato nel perseguire una linea, in campo storico-artistico, nutrita dall’esempio di autorevoli voci novecentesche (la scuola longhiana nell’eco durevole di Arcangeli, la filologia severa della Barocchi professata dalla cattedra della Normale) e propensa comunque a intrecciare una visione inedita sul contemporaneo, in dialogo col clima cosmopolita e vivace vissuto in quei decenni fra new wave e immagini elettroniche, fra controcultura e imperio digitale.
Il volume raccoglie così tracce profonde d’esistenza che ancora, nei souvenirs partecipi degli studenti e dei compagni di viaggio, si accendono di una spregiudicata apertura intellettuale. Dalle esperienze comunitarie, dalla reinvenzione radicale della ‘famiglia’ normativa vissute nel clima fervido della Bologna del Movimento (avventura riassunta nelle pagine dense di Marracci), si passa pertanto alle peregrinazioni meneghine, quando – reduce da una borsa alla Fondazione Longhi e dal perfezionamento alla Scuola Superiore di Pisa – Trento avrebbe ottenuto in Accademia l’incarico di assistente, seguito dalla nomina a professore di ruolo. In questo senso è toccante il racconto di un aperitivo d’antan, consumato in via Vigevano, in un locale con l’affaccio dal retro sul cortile dell’atelier di Pomodoro, circondato dai ballatoi di ringhiera; un approdo d’elezione nel frenetico via vai milanese, un varco verso il lato segreto di una città impostasi, sin da subito, alle passioni e agli interessi dello studioso, divenendo miniera inesauribile di curiosità ed enigmi.
Tale infatuazione – Milano come «problema», oltre che come centro esistenziale e topografico – spostava verso nord le attenzioni di Trento, seguendo l’asse confermato da un più generale riorientamento dei contesti creativi nell’atmosfera succeduta all’impegno militante degli anni settanta. Così, partendo dalla filologia addestrata su Pontormo e il manierismo toscano (gli si deve la riorganizzazione del diario del pittore, in sequenza corretta e comprensibile, come ricorda Falciani in volume con grazia di parola e profondità d’informazione), la sua scrittura si sarebbe rivolta alla sequela leonardesca illuminata dal Cenacolo delle Grazie, alla teoria dei Sacri Monti – percorrendo stavolta il sentiero battuto da Testori – e, insieme, al patrimonio custodito nelle collezioni di Brera («un bene da proteggere e aumentare», stando alla sua campagna per proporsi a direttore di quell’istituzione nel 2009): tutti temi che, distillati in una bibliografia scelta, si imponevano però ai cantieri dei corsi universitari, laboratori vissuti in collaborazione con discepoli e laureandi, secondo quanto testimoniato dai molti ‘sillabi’ inclusi nel libro attuale.
‘Allievo’ di Gianni Romano e di Massimo Ferretti, non stupisce ritrovare in Trento una simile attitudine liberale alla docenza: e anzi, ripensando al suo contributo dedicato a Pier Paolo Pasolini nel volume sui rapporti del poeta con Bologna (atti di un convegno celebrato nel ’95 per cura di Ferrario e Scalia), si capisce quanto sia stato opportuno mettere a disposizione del lettore odierno anche le dispense e gli appunti da questi preparati in vista delle lezioni. Quel saggio corposo, infatti, fu in grado di ricostruire – con acribia sintomatica – modalità e tempi nel rispetto dei quali il padre di Ragazzi di vita ebbe modo, ventenne iscritto all’università, di seguire il monografico dedicato da Longhi a Masaccio e Masolino nell’anno accademico 1941-’42 (e non ’39-40, come erroneamente si riteneva): uno slittamento di pochi mesi e nondimeno necessario per rintracciare con esattezza la costellazioni di rapporti e influenze che lo scrittore coltivò in città nell’epoca verde della sua prima giovinezza.
Proprio uno scritto siffatto sottolinea del resto alcune costanti, caratteristiche dello scandaglio condotto da Trento sulla tradizione culturale italiana: pensiamo cioè a uno sguardo attirato dal rapporto fra scrittura e ricadute formali della parola (è il caso dei lavori su Cellini o su Manzù), ma soprattutto allo scavo pervicace in direzione di un’archeologia del desiderio omosessuale, portata alla luce in affondi luminosi nel cuore delle vicende artistiche e letterarie nazionali. Si segnalano, in quest’ottica, le riflessioni consacrate al Palazzeschi simbolista o a De Pisis (anche sulla rivista «Babilonia»), accanto al rilievo peculiare che assume nel suo insieme il piccolo corpus di meditazioni pasoliniane (più ampio rispetto al solo studio già citato in questa pagina).
Di fronte a una simile démarche stupisce semmai, nel corpo del volume curato dalla Longari, l’assenza di un nome che non poté non esercitare un richiamo diretto sulla speculazione intellettuale (se non sulla stessa biografia emotiva) di Trento e cioè quello di Pier Vittorio Tondelli, suo coetaneo, similmente versato in un’acuta osservazione delle più disparate espressioni artistiche, nell’esercizio consapevole di una sensibilità postmoderna alimentata da un uso combinatorio (e spregiudicato) della citazione, oltre che da lirico autobiografismo.
Tale, evidente fratellanza spirituale non segna comunque una qualche mancanza nel progetto; suggerisce semmai ulteriori, eventuali possibilità di approfondimento attorno a una figura intellettuale cui si torna oggi, e a ragion veduta, a dedicare attenzione critica. D’altronde una simile prospettiva trova conferma nella quantità di rimandi all’opera del romanziere contenuti in un altro volume della casa milanese, che si pone, rispetto a questo su Trento, quasi come parte inaugurale di un dittico: il rinvio è all’antologia di scritti di Francesca Alinovi edita nel 2019, proposta che – come l’ultima raccolta – mira a colmare un vuoto nella ricezione del lavoro di tutta una generazione di voci critiche, snodo cruciale per il nostro recente fin-de-siècle.