Not So Long As The Night è la nuova personale – aperta fino al 14 ottobre – che la Galleria Peola Simondi di Torino dedica all’artista palestinese Emily Jacir. L’esposizione ruota attorno al film Letter to a friend (2019), commissionato dal Fisher Center a Bard e presentato l’anno scorso nella sezione Forum Expanded della 70° Berlinale. Oltre alla proiezione, la mostra propone alcune stampe fotografiche e still del film per un percorso attraverso la storia secolare della casa dell’artista e della strada di Betlemme in cui sorge.

COME INDICA il titolo, il film è una missiva indirizzata a un amico ma indirettamente a chiunque, con uno scopo testimoniale dichiarato dalla voce narrante che accompagna le immagini: «Caro Eyal, è possibile condurre un’indagine prima che un crimine venga commesso? Prima che abbia luogo un incidente? Vorrei chiederti di aprire un’inchiesta ufficiale sulla mia casa di famiglia a Betlemme. In questo modo potremo raccogliere informazioni sufficienti per futuri procedimenti legali».

Eyal è Eyal Weizman, fondatore dell’agenzia di ricerca Forensic Architecture (forensic-architecture.org) nata nell’università londinese Goldsmiths per condurre indagini con o per conto di media e associazioni su violenze e abusi della polizia, stragi ambientali, violazioni dei diritti umani (tra i casi di cui si è occupata c’è l’esplosione al porto di Beirut e l’uccisione di Adama Traoré). La richiesta di Jacir, che potrebbe sembrare paradossale, assume tutta la sua sinistra legittimità nel contesto di una città palestinese lacerata dal muro eretto nel 2004, continuamente erosa dai coloni, pressata ai margini da diciotto insediamenti illegali. Il film istruisce dunque un dossier sui generis che tenta di far fronte in anticipo a una violenza non ancora compiuta ma altamente probabile.

LA CASA FU ERETTA non lontano dalla tomba di Rachele, luogo devozionale o oggetto di contesa sulla via che da Gerusalemme porta a Hebron. Dimora e via furono progettate entrambe alla fine dell’800 dal trisavolo Sheikh Yusuf Jacir che era archivista e amministratore di Betlemme. L’uomo era anche un noto intagliatore di madreperla che, con la fortuna guadagnata, costruì lungo la stessa strada un meraviglioso palazzo, Dar Jacir, in cui sperava di vivere con le famiglie di tutti e cinque i fratelli. L’idillio durò poco e con la crisi degli anni 30 la famiglia cadde in rovina perdendo il palazzo che oggi ospita un hotel dove le coppie festeggiano le nozze nel chiasso della musica a tutto volume e delle luminarie da casinò.

RIPRESE VIDEO, FOTOGRAFIE, audio, repertori vari, mappe e documentazione realizzata o raccolta nel corso di anni si alternano in un percorso che intreccia ricostruzione storica, cronaca famigliare, diario personale e reportage di guerra. L’abitazione dell’artista e i suoi dintorni sono infatti un crocevia della storia, osservatori sul conflitto in Medioriente investiti dalla violenza degli eventi senza possibilità di scampo. Da quando è stato costruito il muro che «ci divide dai noi stessi» separando amici e familiari, quei luoghi di transito per pellegrini e viaggiatori sono diventati presidio dei soldati israeliani e al centro di frequenti scontri armati.

«Uno studio realizzato nel 2017 dalla facoltà di Giurisprudenza dell’università di Berkley sostiene che il campo profughi di Aida vicino a casa nostra è il posto della Terra più colpito dai lacrimogeni» racconta l’artista. Le immagini che per questo studio documentano l’esposizione della popolazione ai gas immortalano sempre la sua casa. A un certo punto, il montaggio passa dalle riprese realizzate da una giornalista durante il lancio di gas da parte dell’esercito israeliano al controcampo dello stesso momento ripreso dall’interno del giardino di casa. Lì vengono raccolti e fotografati migliaia di residui di lacrimogeni tossici a cui la popolazione locale deve problemi respiratori, eruzioni cutanee, malformazioni, aborti.

Quando per le strade si spara, il cane di Jacir si rifugia nell’intercapedine tra due porte e ci rimane terrorizzato per ore senza che le carezze lo convincano a uscire. Il dolore degli altri è anche questo, la foto di una coda che spunta tra due infissi, come un cordone che ancora lega al mondo una creatura desiderosa di tornare al ventre originario.

L’immobilità del fermo immagine gela anche i corpi umani immersi tra i fumi dei combattimenti, nell’impossibilità di un altrove che annichilisce e anestetizza i sensi. La pagina di diario di un’amica ricorda quel giorno del dicembre 2015 in cui l’esercito le sparò a una gamba mentre cercava di fotografare uno «skunk» che avanzava per la via e lei se ne accorse solo perché vide fiotti di sangue bagnarle le scarpe.

GUARDANDO ATTENTAMENTE le fotografie scattate in quell’occasione, si vede il cecchino che la colpì. Nelle immagini si impigliano prove e lacerti di memoria utili forse per resistere alla protervia di un’egemonia costruita anche occultando le tracce dell’altrui passato. Per questo già da bambina, Jacir sentiva di dover osservare e memorizzare il proprio mondo.

Ricordi e visioni si depositano negli spazi della mostra sotto forma di still e fotografie talvolta poetiche, altre tragiche, sempre capaci di raccontare la realtà di un Paese in cui l’assedio è una delle facce della normalità: il cassonetto dove di solito si getta l’immondizia all’occorrenza si trasforma in scudo o barricata.

Purtroppo, durante la notte del 15 maggio le paure depositate nel film hanno preso corpo: durante un raid, l’esercito israeliano ha forzato i serramenti e fatto irruzione nella casa di Emily Jacir, che ospita tra l‘altro il centro d’arte e ricerca Dar Yusuf Nasri Jacir for Art and Research, trasformandola in una base per gli scontri a fuoco, confiscando computer, telefoni, macchine fotografiche e libri.