E’ incredibile quanto dimentichi in fretta la gente. Parliamo del nostro passato, delle battaglie che ci hanno permesso di ottenere libertà, diritti, democrazia. Ecco perché raccontare certe storie, soprattutto oggi, non solo aiuta, ma è necessario per contrastare questa nuova ondata di fascismo che stiamo vivendo e per ricordare a noi stessi che ogni conquista non è per sempre.

Oggi è il 27 gennaio, giorno della memoria, in cui si commemorano le vittime dell’Olocausto e Milano ha scelto di ricordarle con lo spettacolo teatrale Matilde e il tram di San Vittore, scritto da Renato Sarti partendo dal libro Dalla fabbrica ai lager di Giuseppe Valota (fino a domani presso il Piccolo Teatro Studio Melato, una produzione Teatro della Cooperativa con il sostegno di Aned).

E’ una storia di “non eroi”, una storia di migliaia di uomini e donne che si opposero al fascismo e al nazismo pagando un caro prezzo.

“Viviamo tempi veramente bui – spiega il regista Renato Sarti – . Oltraggiare il ricordo di Anna Frank e magnificare la strage di Marzabotto non sono fatti marginali ma le punte di un iceberg grande e inquietante. In tutto il mondo assistiamo al risorgere di pericolosi populismi, che fanno leva sugli istinti più beceri e viscerali, sulla xenofobia, sul razzismo e sulla paura dello straniero. Molti vorrebbero portare indietro le lancette della storia e in questa partita giocata contro l’oblio − lo sport nazionale più praticato − il Teatro della Cooperativa vuole fare, come ha sempre fatto, la sua parte. E il modo migliore mi è sembrato quello di partire dalle voce delle donne”.

In scena, infatti, ci sono tre attrici: Debora Villa, Rossana Mora e Maddalena Crippa che tra un impegno e l’altro ci dedica un po’ del suo tempo per una chiacchierata.

Maddalena, questo spettacolo racconta una storia poco nota, quella della deportazione nei lager dei lavoratori delle fabbriche dell’area nord di Milano. Lei la conosceva?

No, in effetti non la conoscevo, nonostante mia madre fosse di Sesto San Giovanni. Sono molto affezionata a quei luoghi, in cui gli operai che scioperavano contro il fascismo facevano notizia in tutto il mondo. Erano uomini impegnati attivamente che all’improvviso cominciarono a sparire. Non si sapeva più nulla di loro.

A causa degli scioperi che, a partire dal 1943 paralizzarono i grandi stabilimenti del Milanese – gli unici sotto Mussolini, i più grandi in Europa − le case operaie di Sesto San Giovanni, Milano, Cinisello e dei comuni limitrofi furono teatro di retate spietate.

Cinquecentosettanta furono le persone deportate, più della metà non fece ritorno e per i sopravvissuti, e per i loro familiari, la vita non fu più la stessa. Le donne rimasero senza stipendio e con una grande sofferenza nel cuore andarono a cercare i propri mariti ovunque, a San Vittore e in altri posti di detenzione di Milano, fra cui la sede della famigerata Legione Ettore Muti, un luogo di tortura che nel dopoguerra diventerà il Piccolo Teatro di Milano. Alla fine scoprirono i corpi nei campi di concentramento.

Queste cose vanno raccontate perché l’Italia non ha ancora fatto i conti con il fascismo.

E sono le donne, dicevamo, a dare voce a questa storia. Racconti forti ed emozionanti.

Le loro sono testimonianze commoventi che Renato Sarti ha estrapolato dal libro di Giuseppe Valota, figlio di Guido, uno di dei tanti operai che non non hanno fatto più ritorno. Sono racconti di persone con la quinta elementare, ma che resistevano con tutta la loro forza senza mai cedere al fascismo, senza mai prendere la tessera. Rischiamo di dimenticarci di loro, per questo è così importante raccontare.

Soprattutto oggi…

Certo. Allora c’era un’onesta, c’erano dei rapporti sani pur non avendo niente. Ora siamo disintegrati. La comunicazione ci separa dirigendoci dove vuole.

Ma non è tutta colpa della comunicazione. La gente ha paura dell’altro, perché secondo lei?

Non è tutta colpa della comunicazione, ma le prime pagine sono sempre pronte di fronte a certi fatti o dichiarazioni. La verità è che gli italiani sono dei fascisti. C’è tanta ignoranza in giro, per questo, insisto, bisogna ricordare da dove veniamo. La gente ha paura perché è tutta concentrata su se stessa. Non ci sono regole, non c’è autorità, non c’è tradizione. Questo crea un vuoto enorme ed è chiaro che tutto ciò che è altro diventa nemico. Noi veniamo da una relazione, non siamo autosufficienti. Ma l’altro, purtroppo, non viene visto come un’opportunità.

Sentir parlare di “razza bianca in pericolo” – a proposito delle recenti dichiarazioni del leghista Fontana – che effetto le fa?

Mi vengono i brividi. In un attimo siamo tornati a dove eravamo. Ci vorrebbe un personaggio come Mandela, o Don Milani, o Don Gallo… Ho avuto un momento di gioia quando Bruno Tabacci ha stretto la mano ad Emma Bonino. Ho pieno rispetto per chi porta avanti le sue battaglie.

Crede che ognuno di noi possa fare la sua parte?

Credo nella responsabilità personale di ogni singolo cittadino. La vita è una e breve, va vissuta al meglio.

E la cultura può avere un ruolo?

Diciamo che dovrebbe averlo, ma non vede come è stata falcidiata? Ci sono molte persone, soprattutto donne devo dire, che hanno a cuore la crescita culturale del nostro Paese. Me ne accorgo, per esempio, quando vado in un istituto tecnico – non in un liceo – e gli allievi ascoltano il Riccardo II dall’inizio alla fine, senza fiatare.

Ma sono casi rari. L’Italia, per la natura che ha, dovrebbe vivere solo di cultura. E invece Matilde va in scena soltanto per 5 giorni. Lo spettacolo è esaurito da tempo, neppure i miei parenti e né gli amici riusciranno a vederlo. Peccato, tra l’altro ho lavorato benissimo sia con Renato Sarti che con le altre due attrici e le bambine che interpretano il ruolo di Matilde.

Ma poi andrà in tournée?

Lo spero, dopo l’estate. Idem per il Riccardo II di Peter Stein. Nel frattempo riprendo L’allegra vedova, che sarà a Menotti di Milano a marzo e poi in giro per l’Italia. Torno al canto, mia grande passione.