Finalmente ci siamo. Oggi in Spagna si chiude il terribile quadriennio di incontrastato dominio dei populares di Mariano Rajoy, cominciato con il loro trionfo alle amministrative del 22 maggio 2011. E si raccolgono i primi significativi frutti elettorali di difficili ma entusiasmanti lotte contro-egemoniche cominciate quel fatidico 15 maggio, una settimana prima dell’affermazione del Pp.

Come due universi paralleli, in questi quattro anni potere e contro-potere nella penisola iberica hanno rappresentato con chiarezza l’alternativa che è di fronte a tutti nell’Europa della crisi: il definitivo svuotamento di senso della democrazia o la sua riaffermazione quale regime costituzionale fondato su diritti civili, politici e sociali.

Guardando indietro, il bollettino di guerra è impressionante. Nell’agosto 2011 l’ultimo atto del Parlamento morente, a maggioranza socialista, è l’approvazione con voto bipartisan Psoe-Pp della cruciale riforma costituzionale per «la stabilità di bilancio»: da allora il pagamento dei creditori internazionali gode di «priorità assoluta».

Prima si pagano gli interessi del debito, poi, se qualcosa resta, ospedali, scuole e pensioni: sotto gli auspici di Angela Merkel e della Commissione Ue, l’austerità è nella Legge fondamentale. In quell’estate il Psoe è ormai una truppa sbandata, e il Pp si avvia a coronare la sua ascesa con il trionfo alle politiche del 20 novembre. Tracciato il solco nella Costituzione, tutto sarebbe venuto di conseguenza. Nel febbraio 2012 ecco la «riforma» del mercato del lavoro che riduce le tutele contro licenziamenti e che colpisce la contrattazione collettiva nazionale (e quindi il ruolo del sindacato). Ovviamente fatta per «creare occupazione e ridurre il dualismo fra garantiti e non-garantiti».

Qualche mese dopo, arrivano tagli per 10 miliardi ai settori dell’educazione e della sanità pubblica, mentre nelle casse di Bankia, l’istituto di credito guidato dall’ex ministro ed ex direttore Fmi Rodrigo Rato, di miliardi il governo ne versa ben 19. Ma non è che un antipasto. Causa spread sopra i livelli di guardia, in quella estate la Spagna diventa ufficialmente beneficiaria del «piano di aiuti» europeo.

In cambio, Rajoy impugna la mannaia per una manovra da 65 miliardi fra riduzioni di stipendi dei dipendenti pubblici, diminuzione dei sussidi di disoccupazione, aumento dell’Iva e nuove imposte. La cosiddetta «uscita dalla crisi» che viene propagandata oggi sarebbe il frutto di quelle «lungimiranti» scelte. Gli indicatori economici, però, raccontano un’altra realtà: il debito pubblico è oltre il 100% del pil, mentre prima dello scoppio della crisi era al 36%, e la disoccupazione continua a essere a livelli intollerabili (circa il 23%).

Ma l’economia non è tutto: l’autentico dominio del pensiero unico neoliberista si afferma solo se si innesta nei gangli vitali dell’intera società. E la destra spagnola ha voluto lasciare traccia di sé nelle istituzioni dello stato, ad esempio togliendo potere all’organo di autogoverno della magistratura, nel servizio pubblico radiotelevisivo, adesso totalmente asservito al governo, e nelle vite dei migranti «clandestini», a cui fu revocato il diritto all’assistenza sanitaria e che ora possono essere «restituiti» al Marocco dalle enclave di Ceuta e Melilla senza alcun procedimento legale. Avrebbe voluto anche contro-riformare le norme sull’aborto, ma ha dovuto rinunciare.

È diventata legge, invece, l’aggressione alla libertà di manifestazione in virtù della quale è diventato un delitto protestare davanti al parlamento. Lo spirito dei tempi impone di non disturbare il manovratore, e la società spagnola è piena di quei piantagrane che non piacciono a Berlino, Bruxelles e Francoforte.

La resistenza allo smantellamento dei diritti è stata fortissima. L’esplosione degli indignados ha significato l’avvio di un ciclo di politicizzazione di massa che oggi comincerà a dare i suoi risultati anche nelle urne. Una società civile ritenuta meno attiva di altre, a causa degli effetti di lunga durata di 40 anni di franchismo, ha invece mostrato vitalità e spirito critico. Non si contano gli scioperi generali e le manifestazioni, le cosiddette «maree»: verde per la scuola, bianca per la sanità, viola per i diritti delle donne.

Fino alla più recente, clamorosa, sfilata di ologrammi davanti alla Camera. E poi l’impegno di associazioni come la Piattaforma contro gli sfratti della candidata a sindaco di Barcellona, Ada Colau. Un livello di mobilitazione che ha conosciuto fasi alterne nella sua visibilità, ma non nella sua efficacia egemonica: oggi in Spagna sarebbe impensabile ciò che è accaduto nel Regno unito con la vittoria dei conservatori. Lo strapotere del Pp è compromesso, e nulla è come prima.

Un sistema bipartitico che appariva blindato è venuto giù: per le aspirazioni di cambiamento, la condizione necessaria, anche se non sufficiente, è stata realizzata. In controtendenza con il resto d’Europa, l’affluenza alle urne è in aumento, come hanno mostrato le elezioni in Andalusia di marzo. La Spagna, storicamente periferica, sa di essere oggi al centro dell’Europa: dopo Atene, ora tocca a Madrid e Barcellona alimentare la speranza degli europei che non hanno piegato la testa.