Europa

Dagli atipici alle tutele crescenti

Lavoro Non nuovi posti, ma solo la stabilizzazione dei precari. Cosa si nasconde dietro gli aumenti di contratti con il Jobs Act

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 29 maggio 2015

Dall’inizio del 2015 i dati sui flussi occupazionali occupano le prime pagine dei quotidiani. Da quei dati si cerca infatti di ricavare una prima valutazione sull’efficacia del Jobs Act e dell’introduzione degli sgravi contributivi.

A una prima lettura, i dati segnalano una dinamica positiva dell’occupazione a tempo indeterminato. Le elaborazioni sul numero di nuovi contratti di lavoro stipulati nel primo trimestre del 2015 pubblicate dall’Inps riportano una crescita delle attivazioni di contratti a tempo indeterminato di circa 91.000 unità rispetto al primo trimestre 2014.
La crescita delle assunzioni a tempo indeterminato è stata immediatamente interpretata dal Governo e dalla quasi totalità della stampa nazionale come un inequivocabile segnale del successo della riforma del mercato del lavoro. In realtà, i dati finora diffusi andrebbero letti con maggiore cautela perché l’interpretazione delle tendenze in atto e del ruolo giocato dalle riforme è molto complessa e non può essere desunta dalla semplice differenza tra i dati di due periodi diversi.

Per valutare tali aspetti bisogna rispondere ad alcune domande: quanti sono effettivamente i nuovi contratti a tempo indeterminato? Quanti fra questi sarebbero stati presumibilmente stipulati anche in assenza degli sgravi e quanti, invece, sono dovuti ad essi? E fra questi ultimi quanti consistono in conversioni di contratti atipici in contratti tempo indeterminato (sebbene nella versione light delle tutele crescenti a partire dal 7 marzo 2015) e quanti sono invece corrispondono a effettiva nuova occupazione?

Per valutare l’efficacia degli sgravi bisogna quindi distinguere l’origine dei nuovi contratti a tempo indeterminato. Se si trattasse di contratti a tempo indeterminato che sarebbero stati comunque attivati, il bilancio pubblico subirebbe una perdita netta non compensata da alcun beneficio. Nel caso di trasformazione di contratti atipici vi sarebbero, come benefici, la possibile maggiore stabilità della relazione contrattuale e le maggiori tutele di welfare in caso di trasformazione di collaborazioni. Tuttavia, la maggiore stabilità sarebbe da dimostrare, sia perché i contratti a tempo indeterminato in Italia, già prima della riforma, non erano affatto stabili e sicuri, sia perché il combinato disposto di sgravi e costi di licenziamento previsti dal Jobs Act rende conveniente per un’impresa assumere a tempo indeterminato e poi licenziare. Indubbi sarebbero invece i benefici per i lavoratori e, via effetti macroeconomici, per il bilancio pubblico se la concessione degli sgravi contribuisse a realizzare nuova occupazione.

Per stimare il numero di contratti al netto di quelli che sarebbero stati comunque attivati, bisogna guardare la variazione rispetto al primo trimestre del 2014: dai dati Inps risulta una crescita di 98.000 contratti a tempo indeterminato (91.000 attivazioni e 7.000 trasformazioni in più). Tale crescita, anche al netto delle 7.000 trasformazioni, non può però essere interamente imputabile a nuova occupazione: i dati segnalano infatti che, rispetto al primo trimestre 2014, le assunzioni a tempo determinato, in apprendistato e con collaborazioni si sono ridotte, rispettivamente, di 32.000, 9.000 e 19.000 unità.

Dei 91.000 contratti aggiuntivi, 60.000 sembrano quindi imputabili alla scelta delle imprese – in virtù della presenza degli sgravi – di assumere a tempo indeterminato anziché a termine lavoratori che, osservando i trend passati, sarebbero stati comunque assunti, ma con contratti atipici. Ma, allora, possiamo affermare con certezza che i 31.000 contratti residui costituiscono occupazione aggiuntiva da attribuire agli effetti benefici di sgravi e Jobs Act?

Come noto, la misura di sgravio si applica per il solo 2015 ed era stata annunciata ben prima che entrasse in vigore. È quindi presumibile che il numero di contratti stipulati nei primi mesi del 2015 risenta di un trascinamento, dovuto ai contratti a tempo indeterminato che sarebbero stati stipulati negli ultimi mesi del 2014, ma che sono stati posticipati a gennaio per usufruire degli sgravi o, nel caso delle grandi imprese, a marzo per avvantaggiarsi delle forme contrattuali istituite dal Jobs Act. Effettivamente, nell’ultimo trimestre del 2014 si è avuta una riduzione del numero di attivazioni di contratti a tempo indeterminato non imputabile a fluttuazioni stagionali e una stima prudenziale ci porta a ritenere che l’attivazione di almeno 15.000 contratti a tempo indeterminato sarebbe stata posticipata da fine 2014 a inizio 2015. Al netto di quest’effetto trascinamento, i contratti a tempo indeterminato veramente aggiuntivi scenderebbero, dunque, a circa 16.000 unità. Attribuirli tutti alle misure adottate dal governo sarebbe, peraltro, un po’ arbitrario in considerazione del miglioramento che si è verificato nelle condizioni congiunturali.

Ma cosa implicano questi dati nella valutazione dell’efficacia degli sgravi contributivi in rapporto ai loro costi?

Al momento l’Inps segnala che 268.000 nuovi contratti a tempo indeterminato hanno usufruito degli sgravi (di cui 61.000 in seguito a trasformazioni di precedenti contratti a termine). Assumendo che la riduzione di 60.000 contratti da dipendente a termine, da apprendista e da parasubordinato si sia concretata in contratti che hanno usufruito di sgravi e sommando questi contratti ai 61.000 derivanti da trasformazioni, possiamo ipotizzare che sui 268.000 contratti che hanno usufruito di sgravi, 121.000 presentino caratteristiche di maggiore stabilità. Ad essi possono aggiungersi i 16.000 corrispondenti a effettiva nuova occupazione.

Ciò implica che 131.000 contratti a tempo indeterminato sarebbero comunque stati stipulati: in questi casi l’esonero contributivo consisterebbe in un puro trasferimento a vantaggio delle imprese. Sulla base di semplici ipotesi sugli oneri di finanza pubblica per ogni contratto sgravato, risulta che ognuno dei 137.000 contratti nuovi o stabili finora stipulati costerebbe al contribuente italiano 8.500 euro per un triennio. Ma, come sottolineato, la maggiore stabilità dei nuovi contratti è tutta da verificare. Se ci limitiamo a considerare la nuova occupazione effettiva, il costo della manovra per ognuno dei 16.000 nuovi contratti (ovvero il 6% dei contratti che usufruiscono degli sgravi) sarebbe addirittura pari a 73.000 euro l’anno per un triennio.

Se le misure di sgravio non modificassero i comportamenti delle imprese relativi alla stabilità dei lavoratori e alle loro scelte future di investimento, il 94% della spesa per i contratti che finora hanno usufruito di sgravi rappresenterebbe allora un puro trasferimento redistributivo a vantaggio delle imprese e il costo della creazione di veri nuovi posti di lavoro risulterebbe esorbitante.

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