A nove anni di distanza da Il grande e potente Oz, visionaria e fantasmagorica riflessione metacinematografica in 3D che purtroppo non ha incontrato il favore del grande pubblico, Sam Raimi torna finalmente dietro la macchina da presa per sostituire Scott Derrickson, il regista del primo episodio delle avventure del Dr. Strange il quale, pur annoverato fra i produttori del film, è tornato alla Blumhouse per la quale ha realizzato l’atteso Black Telephone. Raimi, uno dei maggiori innovatori del cinema statunitense degli ultimi quarant’anni, e non è un’iperbole, che di fatto ha gettato inconsapevolmente le fondamenta dell’attuale MCU del quale Kevin Feige è l’incontrastato Dominus, si rapporta al compito di rilevare il progetto di Derrickson con la professionalità di un veterano della Hollywood di una volta. La sceneggiatura di Michael Waldron tesse insieme vari fili dell’universo Marvel a cavallo fra televisione (Wanda Vision), fumetti e film.

Wanda – Scarlet Witch (Elizabeth Olsen), pur di salvare i figli Billy e Tommy, i bambini che aveva creato durante il suo periodo a Westview, è disposta a uccidere, strappandole i poteri, la giovane America Chavez (Xochitl Gomez), capace di attraversare incolume i portali dei numerosi universi. Poco più di un pretesto, insomma, per permettere ai protagonisti di muoversi sullo sfondo di fondali digitali estremamente elaborati (e i titoli di coda infiniti offrono una vaga idea dell’enorme lavoro necessario per realizzarli).

SAM RAIMI che nei suoi tre film dedicati all’Uomo ragno aveva creato autentiche sinfonie visive che sconfinavano in liriche sperimentali, alle prese con i codici dell’MCU preferisce lavorare di dettagli e piccole strizzatine d’occhio cinefile quasi impercettibili (come nel finale in cui Wanda affronta Scarlet Witch e nel televisore scorrono le immagini della Biancaneve di Disney…). Avendo Raimi anticipato analogicamente gli stilemi digitali (pensiamo alla meravigliosa shakycam subito adottata dal cinema di Hong Kong in, fra gli altri, Storie di fantasmi cinesi), e avendo utilizzato il digitale per dare vita a un cinema mélièsiano e sincretico (come dimostra Il grande e potente Oz), probabilmente trova oggi pochi margini di manovra nel reame di un immaginario digitale regolato dall’imperativo del fotorealismo, dal rendering e relativi motori (senza dimenticare i calcoli in virgola mobile). Paradossalmente il digitale oggi è il nuovo realismo e – per un praticante del verbo di Ray Harryhausen come Raimi – non ci potrebbe essere maggiore contraddizione per operare nel fantastico.

OFFRENDO ai suoi fan omaggi scelti dai film del passato (le superfici degli specchi che si rivelano essere d’acqua, il grimorio Darkhold che ovviamente evoca il Necronomicon della trilogia Evil Dead, il cameo di Bruce Campbell, Strange che alla stregua di Ash diventa uno zombie, demoni scheletri che richiamano alla memoria Giasone e gli Argonauti, Scarlet che esce da uno specchio liquido come la Sadako di Ringu…), il Multiverso di Raimi si offre come un catalogo di contrabbando di piccoli contrassegni d’autore. D’altronde il passaggio da una dimensione all’altra, già sperimentato con grande efficacia in Spider-Man – Un nuovo universo di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman, è offerto con evidenza addirittura documentaria (e l’apparizione di John Krasinski nei panni Reed Richards terrà i fan con il fiato sospeso nei prossimi mesi in vista di un nuovo film dedicato ai Fantastici 4).

IL RISVOLTO metatestuale, ogni corpo/storia possiede multipli doppi che vivono di derridiana differenza (o mere esigenze di riproduzione industriale), con il moltiplicarsi inarrestabile dei mondi, finisce per avvolgersi in un caleidoscopio autoreferenziale, come Raimi stesso dichiara sui titoli di coda, con i crediti avvolti in una sorta di test di Rohrschach. I pochi momenti in cui Raimi dimostra di intervenire sulla materia con sguardo personale, è a nostro avviso nel magnifico duello a colpi di note, pentagrammi e spartiti musicali, un chiaro omaggio a Topolino apprendista stregone di Fantasia.

Sono questi momenti di immaginario non regolamentato che ci fanno intuire cosa avrebbe potuto essere il film se Raimi fosse stato meno ligio al canone.

Sono questi momenti di immaginario non regolamentato che ci fanno intuire cosa avrebbe potuto essere il film se Raimi fosse stato meno ligio al canone. D’altronde il duello con il mostro monoculare, al quale Strange cava l’occhio con un lampione della luce, a volerla leggere attraverso un bizantinismo meta, potrebbe offrirsi come una dichiarazione di tutto quel che segue dopo (ci accechiamo per giocare meglio il gioco). Un mostro lovecraftiano rayharryhauseniano perfettamente digitale con un solo occhio… che ci offre anche il privilegio di una soggettiva.

Raimi non perde occasione per sottolineare l’importanza dello sguardo e del vedere, in un film che sembra tematizzare l’orrore della ripetizione dell’identico e dell’inganno (Wanda sa che i suoi «figli» non sono «veri», ma li vuole comunque…). Raimi, inoltrandosi nel Multiverso, sembra come pensare al magnifico Ercole al centro della Terra di Mario Bava (basti pensare ai monoliti/Golem a guardia di Scarlet Witch) e ai fondali astratti dei Looney Tunes. Prima che il principio di realtà Marvel prenda il sopravvento.