Ha il volto stanco, provato, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, apparso ieri in tv mentre controlla l’avvio a rilento dei lavori di ripristino di un ponte crollato per l’alluvione di primavera sulla strada costiera del Mar Nero. È il giorno dopo il venerdì nero della lira turca, i mercati sono chiusi ma nel tono della sua voce non c’è più la baldanza e gli slogan gridati tra un turbinio di bandiere rosse con la mezzaluna della mattina precedente a Gumushane.

QUASI CON UN FILO DI VOCE dice ai microfoni che la Turchia si risolleverà, come il ponte di Ordu, «perché questa nazione è santa, è forte, è fedele», perché «non c’entra niente il dollaro, se loro hanno i soldi, noi abbiamo Allah».  Poi invita il popolo turco a ricomprare le lire, vendendo euro e dollari. E aggiunge – sintetizzando per il pubblico locale il breve articolo a sua firma comparso in mattinata sul New York Times – che «non si può portare questa nazione sulla via della minaccia, così stai scambiando un tuo partner strategico nella Nato per una pedina».

Sul Nyt partiva ricordando i sei decenni di alleanza stretta tra Turchia e Stati Uniti, dalla guerra fredda alla Corea e dalla crisi dei missili di Cuba fino all’intervento in Afghanistan dopo l’11 settembre. «Negli ultimi anni – riconosce – la nostra partnership è stata segnata da disaccordi» e a meno che gli Usa non inizino a «rispettare la sovranità della Turchia» le relazioni privilegiate tra oi due Paesi «potrebbero essere in pericolo». Erdogan fa risalire lo screzio al 15 luglio di due anni fa, il giorno del fallito golpe da lui attribuito all’organizzazione «terroristica» di Fethullah Gulen e capitanata «da un ranch in Pennsylvania».

GULEN non è stato mai estradato dagli Usa, neanche una settimana fa quando una delegazione ministeriale turca si è recata negli Stati Uniti per tentare uno scambio che riporta alla memoria storie di guerra fredda. Il nemico pubblico numero uno Gulen in cambio del pastore evangelico Andrew Brunson, arrestato a Smirne nell’ottobre del 2016 con l’accusa di terrorismo e spionaggio a favore dei gulenisti. Brunson, difeso a spada tratta da chiese evangeliche ma anche dai mormoni e dai presbiteriani, un milieu molto caro a Trump, sarebbe ufficialmente all’origine dei dazi su acciaio e alluminio annunciati dalla Casa Bianca contro la Turchia.

I PRIMI DAZI DELLA STORIA contro un alleato della Nato, come fa notare l’agenzia Bloomberg. E alla fine dell’articolo-messaggio all’America Erdogan arriva a paventare una minaccia, quella quasi impensabile di cambiare cavallo. Scrive infatti un avvertimento a Trump a cambiare atteggiamento «prima che sia troppo tardi», Washington «deve rinunciare alla falsa idea che la nostra relazione possa essere asimmetrica e venire a patti con il fatto che la Turchia ha alternative. L’incapacità di invertire questa tendenza di unilateralismo e mancanza di rispetto ci richiederà di iniziare a cercare nuovi amici e alleati».

Una dichiarazione che viene preceduta dalla menzione alla seconda frizione molto forte, oltre a quella di Gulen, e che riguarda la guerra in Siria e l’appoggio – ancora un lascito di Obama – alle milizie curde dell’Ypg contro le armate dell’Isis e anche però i soldati turchi. Più esplicito il portavoce della presidenza in un twitter da Ankara ha detto che gli Stati Uniti «stanno affrontando il rischio di perdere completamente la Turchia» come alleato.

LA TELEFONATA CON PUTIN, venerdì sera, citata dall’agenzia di stampa russa Sputnik, non deve però aver troppo rincuorato Erdogan. I due presidenti avrebbero parlato di Siria ma anche di scambi bilaterali e relazioni economiche a cominciare da una più intensa « cooperazione nel settore della difesa e dell’energia».
Ma si tratta di una partita geostrategica quasi impossibile, visti gli intrecci di interessi tra la Turchia e l’Europa, incluso la questione dei 6 miliardi di euro dati dalla Ue per fermare i profughi siriani, senza contare le banche e le pipeline attive e in costruzione.

MARIA ZAKHAROVA, la bionda e avvenente portavoce del ministero degli Affari esteri moscovita ieri dalla Serbia ha usato parole supe calibrate parlando della politica di dazi inaugurata da Trump. «Ultimamente – ha detto – Washington sta applicando sanzioni nei confronti non solo della Russia ma anche di Cina, Iran e anche «partne dell’Unione europea». Mosca, ha aggiunto, sta «preparando ritorsioni». Non una parola in difesa di Erdogan però.