James Mattis, lo consideravano «l’adulto nella stanza» nella Casa Bianca, un saggio contrappeso alle impertinenze presidenziali, che invece tanto piacciono ai dottor Stranamore Bolton e Pompeo, i due responsabili della politica estera americana.

Eppure, quando fu scelto da Trump per guidare il Pentagono, pochi s’erano chiesti la ragione per la quale l’ex-generale dei Marine si meritasse il soprannome di Mad dog. Perché – si pensava – è un duro, un militare fino al midollo. Non era quello che ci voleva, un cane da guardia che tenesse a bada il lunatico Donald? C’era anche di più di questo, in quel soprannome.

«Cane arrabbiato» aveva guidato i Marine in Afghanistan e in Iraq, un’esperienza che, in un dibattito a San Diego, nel 2005, ricordava come un gran divertimento. «Sapete, è davvero divertente combatterli [i guerriglieri], è da sganasciarsi, è divertente sparare a certa gente». Trump ha il suo linguaggio. Impulsivamente, compulsivamente, lancia minacce o fa annunci sorprendenti, sempre via tweet. Con questo metodo ha fatto fuori 17 ministri e collaboratori nel primo anno di presidenza, 18 in questo secondo anno, tra cui il capo della diplomazia e il titolare della giustizia.

Pensare però che a questa incontinenza potesse far argine un tipo come Mad Dog, beh, anche retrospettivamente, non è che fosse particolarmente rassicurante. Ed entrando un po’ più nel merito, forse per certi versi era vero il contrario: già durante la campagna presidenziale, Trump aveva definito “stupid” la serie di guerre in Medio Oriente e aveva attaccato con durezza la dinastia Bush per l’eredità lasciata nella regione. Mad Dog, invece, era di quelli, nelle forze armate, che sostenevano l’importanza della presenza militare statunitense sul terreno, un punto che ha tenuto anche nell’incontro finale con il presidente.

Mad Dog pensava di avere, lui, sotto controllo, The Donald, in tandem con John Kelly, il capo di gabinetto, anch’egli un alto militare con esperienza nel Golfo, anch’egli in via d’uscita dalla Casa Bianca. Tanto da aver anche deciso chi dovesse succedere al capo delle forze armate, il generale Joe Dunford, in congedo a fine 2019. Mattis puntava con sicurezza sul capo dell’aviazione, il generale David Goldfein. Ma ha dovuto subire lo smacco della nomina del capo dell’esercito, il generale Mark Milley.

Pare che sia stata proprio questa la ragione vera del gesto impulsivo, non di Trump, ma di Mattis.

Quindi non semplicemente un conflitto tra il presidente e il capo del Pentagono, ma qualcosa di più complicato all’interno delle forze armate e del complesso militare-industriale in cui ha voluto inserirsi Trump. Se a sostituire Mattis sarà, come si sente dire, un altro generale, si vedrà da quale «corrente» proviene, di quale idea del ruolo delle forze amate è rappresentante.

Certo è che non si può ridurre quanto è accaduto nei giorni scorsi – l’annunciato ritiro dalla Siria e dall’Afghanistan, a cui è seguito l’addio di Mattis – a uno scontro tra personalità e a un calcolo di Trump rivolto alle elezioni del 2020 e, in vista del voto, al crescendo di attacchi politici e giudiziari che tempesteranno la Casa Bianca.

Questi sono gli aspetti evidenti della vicenda ancora in corso. Più di fondo è la linea che Trump persegue con coerenza – altro che imprevedibile – fin dalla campagna elettorale, e che trova sponda in importanti settori del complesso militare industriale. Gli stessi ambienti a cui si rivolgeva Barack Obama, nell’idea di una riforma sostanziale del modello di difesa e di «sicurezza nazionale» basata sull’innovazione tecnologica e sulla crescente diminuzione del ruolo strategico del vecchio apparato militare.

A che servono un milione e 350.000 uomini in divisa e 850.000 di riserva se i principali nemici, secondo Trump, sono Cina e Russia? Di qui il rinnovamento dell’arsenale atomico, anche «tattico», e in connessione con esso gli investimenti nella cybersecurity, nell’addestramento di corpi scelti e in progetti come i famigerati F-35. Putin, infatti, mette in guardia sul rischio di un conflitto nucleare. Ma la dottrina di Trump non è che il proseguimento della dottrina Obama, condensata nella cattura e nell’uccisione di bin Laden, un concentrato di alta tecnologia combinata con l’impiego di reparti speciali.

Lo spostamento di risorse da un tipo a un altro di modello militare ha i suoi caduti illustri, come Mad Dog e Kelly, e naturalmente i suoi costi e le sue conseguenze, come la dinamica che si metterà in moto in Medio Oriente con il ritiro del contingente americano dalla Siria. D’altra parte, trattandosi della prima potenza militare, è chiaro che decisioni così rilevanti producano un effetto domino globale. Anche nell’assetto e nella dotazione degli alleati dell’America. La ripresa del progetto F-35, da parte del governo attuale italiano, va vista in questa cornice.