Ha la consistenza della mitologia Clint Eastwood nel suo Cry Macho, una presenza che vuole essere appena accennata, con il suo incedere lentissimo, l’impercettibile mutare delle espressioni, il bagliore fulmineo dello sguardo, unico avvertimento di emozione in una postura marmorea, il sollevarsi di un angolo della bocca in un accenno di sorriso, massima concessione di empatia. In quella apparente immobilità si sviluppa un film d’azione e di passione, di ironia e di ricapitolazione di una intera carriera con lo sprint del western che sempre passa e ritorna di moda.
Le diverse stagioni del suo cinema, da attore e da regista scorrono sotterraneamente mentre si sviluppa la storia a cui dà il via un preambolo di pochi minuti: Mike Milo arriva col passo barcollante del cowboy. «Sei in ritardo» gli dice il boss «For What?» per cosa? ed è già leggenda. Un tempo Mike dominava l’arena del rodeo, era la star, poi l’incidente a una gamba lo mette fuori gioco, anche se continua a lavorare per il ranch. «Serve sangue nuovo» rincara il boss, con un tono liquidatorio, come se l’avessero detto a Gary Cooper, considerato a 57 anni troppo anziano dalla produzione di Cordura o a John Wayne nel Pistolero di Don Siegel, il Books vecchio e malato a cinquantotto anni. Se il cowboy anziano è un’icona, quella di Clint Eastwood le contiene tutte.
Così anche se ormai inutilizzabile nelle competizioni, il boss ha tenuto Mike Milo a lavorare nel ranch per pietà, ma ora gli deve ricambiare il favore, andare a riprendere il figlio tredicenne che vive in Mexico con la madre dal carattere esplosivo. Lo interpreta l’attrice cilena di tante serie tv, Fernanda Urrejola che lavora da tempo a Los Ageles (Narcos), diventata famosa per aver fatto coming out in diretta tv cilena.

L’ANZIANO COWBOY e il ragazzino è un intreccio di canonici western, dove si passa il testimone da una generazione all’altra, trasmettendo la legge del far west, la legge del più forte, di solitudine e coraggio.
Rafo il ragazzino da riportare in Texas, è già sulla buona strada, ha deciso di andarsene da casa e frequenta i bassifondi campando con i combattimenti dei galli (oggi vietatissimi in Messico, il film è ambientato negli anni ’80 quando ancora si potevano fare), con il suo campione che ha chiamato Macho per la sua forza imbattibile. Per tutta la durata del film la presenza di Macho che Rafo porta sempre con sé assume il valore di un guizzo vitale, di uno sbattere d’ali, del tempo che passa, di un geroglifico nella dinamica dell’immagine che movimenta e rende misterioso lo schermo e la storia. In qualche modo fa da specchio alle poche parole sussurrate e definitive di Clint, come l’orgoglioso svettare della cresta del gallo lo denota come il cappello da cowboy.
Gli stereotipi messicani ci sono tutti: tequila, coltelli, le brune calienti o le brune accoglienti e la Virgen Maria, le Ford abbandonate. Tutto questo spazzato via d’un sol colpo quando Clint entra in un negozio per comprare abiti locali in modo da passare inosservato e tutti gli spettatori pensano che ne uscirà con il famoso poncho alla Per un pugno di dollari, invece indossa una tranquilla giacca etnica, una strizzatina d’occhio al pubblico.
La vicenda è basata anche questa su stereotipi collaudati, come la trasformazione verso l’età adulta del ragazzino cresciuto senza punti di riferimento sicuri, o lo scagnozzo al servizio dalla madre che gli dà continuamente la caccia, spazzato via come polvere della prateria negli occhi, l’addio alla donna che potrebbe accoglierlo come fa il cavaliere solitario che non può fermarsi e appartenere a nessuno.

NON PAROLE, ma musica infine a esprimere le emozioni, con una collaborazione musicale da parte dello stesso Clint Eastwood: dapprima Mike così come ha rimesso in moto le Ford, fa ripartire il vecchio Juke Box del locale ed esplode l’apoteosi dei Panchos, il celebre gruppo di boleros degli anni Cinquanta famosi nel mondo con le note di Savor a mi (Sai di me) nell’interpretazione della cantante americana (padre siciliano) Eydie Gormé.
Cry Macho va oltre lo stereotipo, ci parla dell’inesistenza dei confini, un monito politico contemporaneo sui muri e i respingimenti, soprattutto tra terre che fino alla metà dell’Ottocento non conoscevano frontiere. E l’emblematica battuta «la storia del macho è sopravvalutata» è un’altra allusione finale diretta al pubblico, sottolinea e sintetizza una intera carriera ancora vitale.