«Il governo pensa che i lavoratori autonomi siano ricchi e in grado di reggere la crisi, ma non è così, molti di noi sono rovinati, io non so dove sbattere la testa. La fame ci ucciderà più del coronavirus, le promesse non si possono mangiare». Un commerciante raccontava ieri sera con queste parole a una tv locale il suo dramma, simile a quello che vivono le molte migliaia di dimostranti che si sono radunati a Tel Aviv per la prima protesta di massa contro il governo Netanyahu dall’inizio dell’emergenza sanitaria. A inizio settimana Netanyahu e il ministro delle finanze Katz hanno annunciato il piano “Rete di sicurezza 2020-2021”. «Sono pronti 50 miliardi di shekel (circa 13 miliardi di euro) in sussidi diretti e altri 30 miliardi di shekel per i prestiti. Il piano durerà un anno, perché il coronavirus rimarrà con noi per un anno», ha spiegato Katz. L’impegno non è stato giudicato sufficiente da chi è più esposto alla crisi: piccoli imprenditori, lavoratori indipendenti, trasportatori, ristoratori, operatori turistici, senza dimenticare gli artisti. Persone che contribuiscono al forte aumento della disoccupazione, ora intorno al 21% – 850.000 persone –, dopo aver toccato il 25% a marzo e aprile, i mesi del lockdown durante la prima ondata della pandemia. E la loro protesta adesso scende nelle strade di Israele.

 

Netanyahu, elogiato in primavera per la sua gestione della crisi sanitaria, ora è apertamente criticato. La sua popolarità è in forte calo. Anche per questo ha messo da parte, per ora, l’annessione di una porzione di Cisgiordania palestinese, attesa il primo luglio, per dedicarsi all’emergenza sanitaria ed economica in cui si ritrova paese. Ed è di fronte a un dilemma: è prioritario fermare con misure drastiche la diffusione del virus oppure è più importante evitare la catastrofe economica (il Pil israeliano scenderà del 6%)? L’evoluzione della crisi probabilmente deciderà per lui. Escluso categoricamente fino alla scorsa settimana dal governo, il lockdown aleggia di nuovo su Israele investito dalla seconda ondata della pandemia. I casi positivi hanno superato nell’ultima settimana ogni record – intorno ai 1500 al giorno – con l’indice di contagio oltre il 5%. «Se si dovessero raggiungere i duemila pazienti al giorno, si accenderebbe una luce rossa. Stiamo cercando di non arrivarci ma questo probabilmente ci porterà a un lockdown generale», ha avvertito il ministro della sanità, Yuli Edelstein.

 

Scienziati, medici e virologi da tempo denunciano come «insensata» la decisione presa dal governo di riaprire quasi tutto a maggio, quando l’epidemia si riteneva sconfitta e la popolazione ha cominciato a comportarsi come se il nuovo coronavirus non fosse mai esistito. Ad ingannare è stata anche la bassa mortalità registrata a marzo e aprile: poco più di 200 decessi su circa 15mila casi positivi. A giugno la situazione è precipitata. Ora siamo a 36mila positivi e 354 morti. I malati gravi sono in aumento e le terapie intensive che si erano svuotate adesso accolgono decine di ammalati. Netanyahu questa settimana ha riconosciuto che la riapertura totale del paese a maggio è stata «affrettata».

 

Un lockdown parziale è già in vigore. Quartieri di Gerusalemme, Beit Shemesh, Lod, Ramle e Kiryat Malachi sono stati dichiarati “zone rosse” per sette giorni. E il virus colpisce anche il governo e il mondo politico. Due ministri – tra cui quello della difesa Benny Gantz – e tre deputati sono in quarantena precauzionale a seguito di contatti con persone risultate positive al Covid-19. In isolamento anche il capo di stato maggiore Aviv Kochavi. Ed è andato in tilt persino lo Shin Bet, il servizio di sicurezza incaricato da Netanyahu di monitorare il contagio tra la gente. Migliaia di israeliani hanno ricevuto, per errore, un messaggio di allerta-contagio e sono entrati senza motivo in quarantena.