La cura del corpo è più una questione culturale, con una lunga storia alle sue spalle, che un semplice problema di igiene personale. Georges Vigarello, lo storico specialista della storia dell’igiene e della rappresentazione del corpo nella cultura occidentale, che ha pubblicato libri diventati dei classici come Le sale et le propre, l’hygiène du corps depuis le Moyen Age, Histoire de la beauté o Le Sentiment du soi, Histoire de la perception du corps (tutti pubblicati da Seuil), ha curato, assieme alla storica dell’arte Nadeije Laneyrie-Dagen la mostra La Toilette, nascita dell’intimo al Musée Marmottan-Monet (fino al 5 luglio).

È un racconto che si snoda attraverso un centinaio di opere – arazzi, quadri, sculture, fotografie, incisioni – dell’evoluzione dei rituali legati alla cura di sé, dal XVI secolo fino ai nostri giorni, con tanto d’invenzione di una nuova pratica: la creazione di uno spazio specifico nelle case, che ha comportato una nuova gestualità, attraverso la quale l’individuo si appropria di un tempo che gli appartiene esclusivamente. La mostra mette in scena la nascita di una recente psicologia e abitudini sociali, fino ad arrivare ad interrogare la società dei consumi di oggi, dove l’intimità conquistata si intreccia con l’esibizione.
Nella cultura occidentale non c’è, infatti, solo la conquista progressiva del «pulito», ma contemporaneamente l’approfondimento dell’«intimo». Con il Rinascimento, i bagni pubblici, che erano ancora frequenti nel Medioevo, spariscono. L’acqua è vista con diffidenza, come possibile vettore di malattie, la peste, i danni ai denti, etc. Il corpo viene vissuto come fosse una spugna, minacciato dall’assorbimento dei veleni contenuti nell’acqua. Le rappresentazioni del bagno, come quelle dell’Ecole de Fontainebleau (nel dipinto che rappresenta Gabrielle d’Estrées, favorita di Henri IV e di sua sorella, per esempio) o in un arazzo degli Episodi della vita signorile (conservato al Musée de Cluny) offrono una visione ideale del «bagno»: corpi femminili immobili, in posa, che trasmettono una volontà di distinzione, senza nessun riferimento al quotidiano, a gesti di igiene. L’oggetto di queste raffigurazioni è un nudo femminile visto in forma idealizzata, immerso in una natura prolifica. Il bagno è solo un pretesto. All’inizio della modernità, spiega Vigarello, le rappresentazioni del bagno sono «quasi mitologiche», spesso si legano al simbolismo della fecondità. Nel Rinascimento la pratica del bagno è rara, riguarda solo l’élite sociale e attorno a questa attività è ammessa la presenza di varie persone, domestici, ma anche visitatori, di sesso opposto.

Nel XVII secolo sparisce, nella realtà e nell’immaginario. Il termine toilette nasce in questo secolo: il primo significato è quello della «stoffa» riposta su un mobile, che serve a pulire, poi il termine designerà il mobile stesso e, infine, i gesti dell’igiene corporale. La toilette è «secca», senza acqua, i gesti sono codificati, riguardano la pettinatura, il trucco, i vestiti. È un atto sociale, realizzato alla presenza di domestici e visitatori. La credenza diffusa era che, poiché l’acqua era pericolosa, la pulizia avveniva cambiando la biancheria, pulendosi con la stoffa, per impedire l’invasione di pulci e pidocchi. I poveri, però, non avevano questa possibilità. A ricordarcelo è La femme à la puce, di Georges de la Tour, un quadro del 1638, che rappresenta una domestica mentre schiaccia una pulce che si è annidata sul suo corpo. Nicolas Régnier, in Jeune femme à sa toilette (1626) dipinge una vanitas, con il vaso da notte dietro lo specchio, come memento mori.

Nel XVIII secolo, l’acqua comincia a tornare progressivamente nelle camere dei ricchi. Vengono inventati nuovi accessori, come il bidet (nel 1725), che richiedono un po’ di intimità. La toilette si scinde, una parte diventa più privata, l’altra resta pubblica. Il secolo è libertino. La bella che fa la toilette, anche se non esistono ancora spazi specifici, cerca di isolarsi, ma spesso c’è l’«intruso» che sbircia (o la cameriera, come in un quadro di François Eisen, 1742, che allontana una bambina mentre la dama si avvicina al bidet). È del 1742 il curioso insieme di quattro pitture di François Boucher, che doveva ornare uno spazio privato (per soli uomini, come un fumoir), realizzato per il finanziere Randon de Boisset: due quadri «scoperti» – con due dame infiocchettate, una in rosa, vista di schiena, che prende per mano un bambino, l’altra in verde che gioca con un cane – nascondono due altre pitture «coperte», sempre le due dame, nella stessa posizione, ma una con il sedere all’aria perché appena alzatasi dalla chaise percée e l’altra, La Femme qui pisse, che urina in una vaschetta (e c’è sempre un voyeur sullo sfondo). Molto più tardi, anche Lacan terrà «coperta» l’Origine du monde di Courbet, di cui era diventato proprietario.

All’inizio del XIX secolo, il costume cambia. Madame de Genlis, nel Dictionnaire des étiquettes (1818) rileva: «Bisogna ammettere che esistevano di pessimo gusto. Per esempio, l’abitudine diffusa tra le donne di vestirsi di fronte agli uomini e di farsi dipingere davanti alla toilette». La porta dello spazio dedicato all’igiene si chiude. Verso la fine del secolo, l’acqua corrente comincia ad arrivare negli appartamenti delle grandi città. E i pittori si appropriano del tema «donna alla toilette». Rappresentano corpi non più idealizzati, con gesti quotidiani e nuovi, la sensualità domina, l’ambiente diventa quotidiano. Edgas Degas e Suzanne Valandon sono tra i primi a immortalare il corpo nella quotidianità, evocando la sensazione erotica che si prova a contatto con l’acqua. A metà degli anni ’20 del ‘900, Pierre Bonnard dipinge Marthe, la sua compagna, immersa nella vasca da bagno, in uno stato di fusione tra pelle e acqua, elemento di «distensione» (il termine è stato inventato allora con questa accezione) più che di igiene. L’intimo ormai fa parte del quotidiano.
Poi, da Cézanne a Kupka, Picasso o Léger, trionferanno le geometrie, il colore, le dissonanze, ma al di là delle questioni formali, il tema della toilette (Le rouge à lèvres di Kupka, 1908, Femme à la montre di Picasso, 1936) continuerà a rimandare alla vanitas, al tempo che passa e non perdona, al futile narcisismo.

Ci penserà il mercato a sfruttare questo filone, con la diffusione delle «linee» cosmetiche (le case Helena Rubinstein, Esthée Lauder o Elisabeth Arden nascono dopo la prima guerra mondiale). Fotografi e artisti (come Cagnaccio di San Pietro) insisteranno sull’immagine liscia e rassicurante della donna alla toilette, padrona ormai della propria intimità. Fino ad arrivare – con le due ultime opere in mostra – a una vera e propria «sfida» del prendere cura di sé, con Erwin Blumfeld (Studio per una fotografia pubblicitaria, 1948) e Bettina Rheims (Karen Mulder portant un très petit soutien-gorge Chanel, 1996), con l’immagine del nostro secolo di una donna che guarda con decisione l’obiettivo, mentre ha la faccia ricoperta da una maschera di bellezza. L’atteggiamento è quello di chiedere: «Ma cosa volete? Mi sto occupando di me stessa e ne sono fiera».