E un’infezione virale mutò di punto in bianco le sorti di Venezia. Chi l’avrebbe mai detto? Domenica 23 febbraio, piazza San Marco era ancora preda del solito pandemonio del Carnevale, con Kristian Ghedina in discesa libera dal campanile sulle note dei Led Zeppelin, quando una causa di forza maggiore ha fermato quello che per molti sembrava l’inevitabile destino della città: diventare un luna park. Inevitabile evidentemente non è.
Lo sfruttamento del pianeta per trarne profitto – nel rapporto umani-animali istigando a mischiarsi con carni incommestibili, nel rapporto umani-umani stipandosi in dormitori, luoghi storici, mezzi di trasporto – ha toccato il fondo. Il sistema immunitario intelligente dell’uomo non ha retto. Da tempo si parla di antropocene e di questo modo di produrre di massa e per masse, la globalizzazione, che non è un progresso ad alcun livello, climatico (inquinamento) economico (capitalismo), politico (populismo), culturale (analfabetismo funzionale, turismo «mordi e fuggi», contraffazione). Con essa, anzi, l’uomo arretra «a passo di gambero» fino ad automassacrarsi. Da non crederci? Sorpresa!
Il coronavirus ci rinfaccia la capacità di «super-globalizzatori» (Bruno Latour) con l’immagine che le è più consona: un contagio di massa che colpisce i polmoni e porta alla morte. Quel che l’uomo non ha voluto riconoscere dall’esterno, il virus glielo ha mostrato togliendogli il respiro. La globalizzazione, che confonde umani e animali, umani e umani, è letale. La pandemia, però, non ha solo mostrato il risvolto negativo delle scelte dell’uomo; lo ha costretto a interromperle, aprendo il varco a nuovi principi di relazionarsi al mondo.
Il lockdown deciso dall’Italia per fronteggiare l’emergenza, non condiviso anzi contestato dall’America di Trump e da altri Paesi europei, è una presa di posizione forte nonostante i costi elevatissimi che comporta. Perché a differenza del cinismo di chi mantiene lo status quo, di chi chiude a metà, di chi si appella a un’anodina «immunità di gregge», spezza coraggiosamente la catena. La prima reazione degli italiani alla crisi scatenata dal Covid fa riflettere: si sono rimboccati le maniche e hanno impastato acqua, farina, lievito, sale per il pane o la pizza artigianale. Eppure i prodotti surgelati, potenzialmente non più contagiosi del pacco di farina, spiccavano nei frigo delle multinazionali del cibo come sempre. D’istinto sono stati respinti, con la voglia di prepararsi da sé qualcosa di buono, tornando alle basi.
Già a novembre i veneziani si sono chiusi in casa per l’acqua alta, segnale dello storto mondo in cui stiamo e di cui la Serenissima, Banksy dixit, subisce alcune delle peggiori conseguenze. Certo Rialto e San Marco deserti e gli scatti satellitari di Canal Grande e Canale della Giudecca vuoti dal traffico sgomentano. Nessuna «città ideale» è sgombra, eccetto la famosa veduta del Rinascimento che illustrava principi prospettici e architettonici. I cittadini fanno la città, abitandola. L’aspetto metafisico di Venezia in questi giorni può piacere, si gusta il ritrovato silenzio fra le calli, la laguna che senza più moto ondoso sembra un lago, ma non incantiamoci. È una situazione estrema, un Carnevale alla rovescia altrettanto pericoloso per il benessere della cittadinanza. Artigiani, ristoratori e albergatori soffrono. E soffrono i bambini, abituati a vivere la città come un prolungamento di casa, un luogo di incontri e di splendide passeggiate.
Che fare, allora, nella post-pandemia? Necessariamente dovremo adeguarci alle norme igieniche e sanitarie, che richiedono la distanza interpersonale, la cautela, il rispetto, il decoro, l’attenzione nei gesti. Il messaggio del virus, dunque, è la buona educazione. E se facessimo di necessità virtù? Immaginare soluzioni alternative per Venezia assecondando l’indicazione del Covid, rivedendo il paradigma economico di cui siamo vittime e responsabili, e gli stili di vita che ne sono seguiti. Se attendessimo a braccia conserte la scoperta del vaccino, concederemmo a chi ha provocato questo dramma di accanirsi più di prima. Il divieto di assembramento è già un gesto-barriera contro il ritorno dell’identico, un formidabile bastone tra le ruote al turismo di massa. Ma non basta.
Autoctoni e non, impegnamoci perché la condizione per votare chi governerà in città con la prossima giunta sia di sbarrare i porti alle navi da crociera. Un atto concreto di tutela simbolico di altri che ne discendono. La ricchezza della Serenissima non è mai dipesa da masse e grandi navi, ma da grandi idee.