Dall’uragano Harvey che ha devastato il Texas ai monsoni record che in India, Bangladesh e Nepal hanno ucciso oltre 1200 persone, all’alluvione in Niger, gli «eventi estremi» riaprono un dibattito sul legame coi cambiamenti climatici in atto.

Il Washington Post ha riportato le reazioni degli scienziati, e com’è noto legare un singolo evento estremo al riscaldamento globale è arduo. Di certo c’è solo che l’aumento delle temperature globali e quelle della superficie di oceani e mari rende più violenti fenomeni distruttivi che avvengono in natura, amplificandone gli effetti. E più frequenti: l’Economist ricorda come Houston sia già stata colpita da eventi estremi come Harvey – classificato con «tempi di ritorno» di 500 anni – già nel 1979 e nel 2001: con questa ben 3 volte in meno di 50 anni.

E, invece, ne dovrebbero capitare due ogni 1000 di anni, ed è questa differenza che è attribuibile ai cambiamenti climatici in atto. Se eventi estremi e rari diventano frequenti, allora tutta la progettazione e gestione del territorio ne dovrebbe tener conto: dalla gestione dell’acqua nei periodi di siccità, agli incendi boschivi e alla costruzione di infrastrutture.

Anche in Italia questo tema è affrontato dal Piano Nazionale di Adattamento attualmente in consultazione, anche se le norme e i regolamenti che fissano i criteri e i parametri da seguire, ad esempio, gli scenari di inondazione per la costruzione delle infrastrutture, sono ancora dispersi in mille rivoli. Al «disastro annunciato» di Harvey si è sommato quello dell’incidente a una fabbrica chimica, al momento pare senza conseguenze, colpita dall’uragano. Non è la prima volta che accade in Texas. Nonostante questo a Houston manca di una normativa per la zonizzazione, così alcuni impianti pericolosi sono in prossimità di centri abitati e scuole, in un contesto deregolamentato appoggiato dai politici texani. E, di recente, l’Epa guidata da Scott Pruitt ha preso posizione a favore dell’industria petrolchimica, per ritardare le norme che porterebbero alla sostituzione di sostanze pericolose.

Così il paradosso è che l’amministrazione Trump accusa di «politicizzare il clima», mentre fa di tutto per proteggere politicamente chi mette a rischio ambiente e salute, invece di imporre norme ambientali e di sicurezza ancor più severe, tanto più necessarie in un mondo che si riscalda.

I cambiamenti climatici hanno com’è noto impatti più disastrosi laddove già esiste una maggiore fragilità ambientale e sociale, peggiorando dunque situazioni già al limite: per questa ragione la connessione tra aumento dei flussi migratori e impatti dei cambiamenti del clima è ormai riconosciuta.

L’Italia è collocata in una «frontiera climatica» ed è in prima linea per gli impatti dei cambiamenti del clima. Sia in termini ambientali che per essere di fronte a un’area altamente vulnerabile come il Nordafrica. Affronta l’argomento Effetto Serra Effetto Guerra, un bel volume in uscita per Chiare Lettere il prossimo 7 settembre, scritto da un diplomatico italiano, Grammenos Mastrojeni, e da Antonello Pasini, fisico del clima al Cnr.

Nel Mediterraneo, diversamente da altre zone di frontiera climatica del pianeta, gli effetti locali del cambiamento climatico globale appaiono più chiari, nel senso che diversi studi convergono. La tendenza generale è uno spostarsi verso nord delle alte pressioni tipiche delle aree desertiche fino al versante sud del Mediterraneo, con un forte impatto nelle aree già fragili sia sul piano ambientale che sociale. Ma anche nel versante nord del Mediterraneo «si prevede un aumento della temperatura media e di eventi estremi di caldo insieme a una perturbazione del ciclo delle piogge». Pioverà di meno in media ma con eventi di maggiore intensità. Così la particolarità fondamentale del nostro Paese – un clima «nordico» d’inverno e africano d’estate – tende a essere modificato dai cambiamenti in atto che impatteranno su una situazione con diversi aspetti di fragilità peggiorate da un cattivo uso e gestione urbanistica e territoriale dissennata.

Così un diplomatico e un climatologo si mettono assieme e propongono una riflessione sul «che fare»: anziché pensare di costruire muri per bloccare flussi migratori spinti anche dai cambiamenti climatici, una gestione accorta dei flussi e una cooperazione intelligente e generosa costerebbe molto meno e potrebbe migliorare le cose.

Gli «imprenditori della paura» – quelli che usano l’immigrazione per agitare paure e farne da pericoloso propellente politico – avranno vita facile finché questi temi e argomenti non diverranno di senso comune. Una strada diversa è possibile, promuovere le soluzioni ai cambiamenti climatici e allo stesso tempo soluzioni pacifiche, ma richiede visione, organizzazione e capacità di gestione adeguate.

* direttore di Greenpeace Italia