«Partiva dall’Emilia Romagna, passando per Milano, una “filiera” per trasferire verso la Svezia clandestini musulmani sbarcati in Italia». Questo è l’incipit di un articolo apparso su «il Fatto quotidiano» di martedì 20 gennaio. L’inchiesta, come nello stile di quel giornale, prendeva di mira e portava a processo innanzitutto le due cooperanti Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, oggetto di un precedente «scoop» relativo a delle telefonate, precedenti la loro partenza per Aleppo, in cui emergevano rapporti – compromettenti e poco chiari, questo adombrava l’articolo – con la comunità siriana bolognese.

Secondo obiettivo dell’inchiesta del Fatto, un’altra volontaria accusata di aver rivolto alcuni suggerimenti su come lasciare l’Italia a dei «clandestini musulmani» che la stessa giornalista autrice dell’articolo indicherà poi come componenti di «una famiglia siriana di buon livello, trasferitasi in Egitto», «undici persone più due ragazzi partiti su un barcone e scampati al naufragio avvenuto nel Canale di Sicilia il 19 luglio scorso, che ha visto morire in mare 180 persone». A queste persone sarebbe stato suggerito di nascondere o eliminare qualsiasi elemento riconducibile al loro passaggio dall’Italia. Comportamento sospetto senza dubbio. Peccato che i «clandestini musulmani” di cui si parla sarebbero alcuni delle migliaia di profughi siriani arrivati in Italia nel corso degli ultimi mesi dopo aver attraversato il Mediterraneo rischiando la vita sui barconi partiti dalla Libia o dall’Egitto.

Donne, uomini, bambini, intere famiglie costrette a fuggire dal loro paese, parte di quei oltre tre milioni di persone che l’Unhcr stima abbiano lasciato la Siria dall’inizio della guerra civile, la popolazione di profughi più grande al mondo. Profughi, dunque, richiedenti asilo, potenziali rifugiati. E probabilmente, se a qualcuno l’informazione risultasse preziosa, musulmani, è vero. Come è vero che nei mesi scorsi, molti di quei profughi siriani, la maggior parte, una volta sbarcati in Sicilia, hanno cercato di lasciare il nostro paese e raggiungere il Nord Europa rifiutandosi di farsi fotosegnalare e prendere le impronte digitali, spinti non dal desiderio di sfuggire alle polizie antiterrorismo di tutta Europa, ma dalla sola speranza di aggirare il regolamento di Dublino III.

Il quale, come è noto, riguarda l’obbligo di presentare la domanda di protezione internazionale nel paese in cui il profugo rilascia le impronte digitali, un limite invalicabile al compimento del progetto migratorio da parte di chi fugge dalla guerra e tenta di raggiungere zone del mondo in cui rivendicare un diritto fondamentale, quello all’asilo. E che vi siano reti di persone e associazioni nel nostro paese che offrano consigli e supporto alle famiglie siriane in fuga verso il Nord Europa è cosa nota, col fine, in primo luogo, di metterli in guardia dai trafficanti di esseri umani pronti ad approfittare della situazioni e in grado di gestire canali capillari ed efficaci a caro prezzo.

Operatori, istituzioni e associazioni che si occupano di richiedenti asilo, rifugiati, minoranze e migranti e coloro che questi temi seguono nell’informazione sanno bene quanto sia importante utilizzare termini appropriati quando si parla di immigrazione. E con questo scopo è nata l’associazione Carta di Roma che del ricorso alla parola «clandestino» riferita a queste persone, ne fa un caso esemplare, perché improprio e giuridicamente sbagliato.

In momenti cruciali e delicati come quelli che stiamo vivendo nelle ultime settimane cautela, intelligenza e rispetto dovrebbero guidare chiunque.