Con ventisei milioni in biglietti venduti, annuncia la A24, Civil War ha registrato il record d’incassi per il miglior weekend d’apertura nella storia dello studio indipendente newyorkese. Anticipato da una campagna pubblicitaria serratissima, e accolto da una copertura mediatica che trascende lo specifico delle recensioni (relativamente positive) trovando spazio nelle pagine d’opinione e di politica, il nuovo film di Alex Garland sembra centrare lo zeitgeist. La guerra civile è evidentemente «nell’aria».

LO SCRITTORE e regista inglese (Ex Machina, Men, Hallucination) la racconta nella forma di un road movie che segue un gruppo di giornalisti diretti da New York a Washington, dove intendono strappare un’ultima intervista al presidente, giunto non si sa bene come (l’attuale costituzione americana non lo permette) al terzo mandato. La loro, però, non è una trasferta normale. Il paese è infatti lacerato da una guerra che contrappone insorti (tratteggiati secondo un’inspiegabile alleanza tra California e Texas) e governo federale, incarnato da una Casa Bianca virtualmente sotto assedio. La Florida, da parta sua, minaccia la secessione. Il film si apre in una strada di New York che potrebbe essere Kirkuk – macerie, auto incenerite, scambi incoerenti di pallottole. Nella confusione generale, incontriamo i personaggi: evidentemente battezzata da Garland in onore della leggendaria fotoreporter Lee Miller, che catturò alcuni dei primi scatti dei campi di concentramento durante la Seconda guerra mondiale, Lee (Kirsten Dunst) è una famosa fotografa di guerra, Joel (Wagner Moura) il cinico giornalista con cui lavora, Sammy (Stephen McKinley Henderson) un reporter di lunga data e Jessie (Cailee Spaeny/Priscilla) un’aspirante fotografa che si accoda ai tre veterani – il suo occhio vergine, privo di esperienza, contrapposto a quello di Lee, che ha (già) visto tutto. E il peso di quelle immagini vive nel volto marmoreo di Dunst e nei suoi movimenti. È lei l’ancora del film.

La redazione consiglia:
Mille volti per l’orrore, il maschile come minaccia in «Men»Il viaggio tra New York e Washington, a bordo di un furgone «press» che li protegge meno di una sbrindellata bandiera bianca, passa dietro alle retrovie degli insorti. Il paesaggio che li circonda – file interminabili di auto abbandonate sull’autostrada, negozi saccheggiati, main streets deserte, un sepolcrale parco a tema natalizio – ci scaraventa in un futuro quasi postatomico (che ricorda quello di 28 Days Later, sceneggiato da Garland nel 2002). Invece degli zombie, nella scena più sinistra del film, Lee e colleghi si imbattono in Jesse Plemons (l’attore è il marito di Dunst) con un paio di occhiali rossi, un camion carico di cadaveri e una mitraglietta che chiede loro da che stati provengono per assicurarsi che siano americani «doc». Garland offre qua e là spruzzi di razzismo, anarchia, vigilantismo (l’unico paesino che sembra «normale» ha cecchini appostati su tutti i tetti). Ogni forma di società civile come dissolta in una trance paramilitare. Dagli scorci delle conversazioni, l’impressione, è che il presidente sia un despota di cui è meglio liberarsi. Ma è impossibile afferrare lo specifico di quello che sta succedendo perché il film non si spinge mai aldilà del suo decor. Si tratta, ha detto Garland, di una scelta precisa dettata dalla sua «preoccupazione nei confronti del potere e della crescita degli estremismi, rispetto al centro».

«IL MIO è un film categoricamente politico, ma contro la politica polarizzata tra destra e sinistra», ha detto il regista in un’intervista alla Pbs.
Però, diversamente da John Carpenter o George Romero – al cui immaginario Civil War deve un grosso debito, e i cui film sovvertono nel profondo l’interpretazione banalmente «binaria» della politica Usa – il centrismo auto proclamato di Garland appare come una scelta di superficie, se non addirittura di marketing. Tanto per non alienare nessuno, e perché ognuno possa vederci di tutto – da qui il piccolo polverone mediatico oltre le pagine di cinema. Il che fa di Civil War un buon film d’azione, elegante di stile e di atmosfere riuscite. Ma poco di più.
La seconda guerra civile americana ce l’aveva raccontata (oggi forse si può dire che l’avesse anticipata) molto meglio Joe Dante, nel 1997, con il suo magnifico, divertentissimo, The Second Civil War, sfortunatamente tuttora poco visto per questioni di diritti.