Lo scorso novembre, durante una visita a Nantong, Xi Jinping lanciava un monito la cui reale portata sarebbe emersa completamente solo in seguito. Quel giorno il presidente cinese si era recato al museo della città e in un importante discorso riportato dai media nazionali aveva affermato che Zhang Jian, fondatore del museo e imprenditore-filantropo nella Cina di inizio ‘900, era “un uomo virtuoso di un’epoca passata e un modello per gli imprenditori cinesi”.

Nel proprio discorso Xi lodava non solo gli sforzi imprenditoriali compiuti da Zhang agli albori dell’industrializzazione cinese, ma anche i suoi contributi per la costruzione delle prime istituzioni culturali e scientifiche moderne della Cina, nonché per lo sviluppo di un sistema embrionale di assistenza sociale per i poveri. Nella narrazione di Xi, in sintesi, Zhang veniva indicato come un imprenditore “patriottico” il cui operato mirava a modernizzare il paese e rafforzarlo contro l’imperialismo europeo di inizio secolo.

Negli stessi giorni le autorità cinesi bloccavano l’offerta pubblica iniziale di Ant Group – il braccio finanziario di Alibaba – alla borsa di Hong Kong, dando così inizio a una intensissima stagione di regolamentazione dell’economia digitale cinese che dura ancor’oggi e dalla quale nessuna delle grandi aziende tech è uscita illesa. I regolatori hanno infatti rovesciato una pioggia di provvedimenti che hanno completamente stravolto le dinamiche del settore, basti ricordare la multa record da $2,8 miliardi per comportamento monopolistico comminata proprio ad Alibaba nell’aprile scorso.

Dopo circa 10 mesi di campagna per rettificare i Big Tech, il valore delle azioni di tutte le maggiori aziende ha subito drastiche riduzioni e al momento non esiste alcun indizio che suggerisca che la stretta regolatoria sia in procinto di terminare. Anzi, un’opinione comune tra gli analisti è che questa sia destinata ad andare avanti ancora a lungo.

La prospettiva di nuove ingenti perdite e di nuove imposizioni regolatorie ha avuto un effetto pesante sul settore, che dunque ha cercato di correre ai ripari. Negli ultimi mesi infatti i dirigenti delle grandi aziende hanno avuto una svolta filantropica, cominciando a donare ingenti somme in beneficienza. Collegandosi alle priorità stabilite nel 14° piano quinquennale approvato a marzo (come la rivitalizzazione rurale e la spinta ai consumi interni), i Big Tech hanno annunciato donazioni miliardarie alle fondazioni e agli enti che si occupano di sostenere le cause sociali, educative, ambientali e lavorative che più stanno a cuore a Pechino.

Per esempio, l’azienda di e-commerce rurale Pinduoduo ha promesso di devolvere tutti i propri profitti dello scorso e dei prossimi quadrimestri per la creazione di un fondo da 10 miliardi RMB ($1,5 miliardi) a sostegno delle attività agricole. Prima ancora Tencent, attualmente la più grande azienda tech cinese, aveva promesso di donare 50 milardi RMB ($7,68 miliardi) per sviluppare iniziative ispirate a “valori sociali sostenibili” come la promozione dell’educazione, della decarbonizzazione, dell’assistenza sociale, e dell’accesso equo ad acqua, cibo e cure mediche per tutti.

La grande ondata di donazioni è arrivata dopo che a metà agosto il presidente Xi ha lanciato la nuova parola d’ordine della “prosperità comune” e della redistribuzione del reddito. Alibaba ha annunciato di voler investire 100 miliardi RMB ($15 miliardi) per supportare le piccole e medie imprese e per migliorare la protezione assicurativa dei lavoratori precari della gig economy cinese, mentre Tencent ha promesso altri 50 miliardi RMB per sostenere i salari delle fasce più deboli della popolazione. In un comunicato su WeChat il colosso tech dichiarava che il raddoppio dell’impegno era una risposta proattiva alla chiamata del governo.

In poche parole, i grandi imprenditori cinesi stanno diventando sempre più simili all’idea di imprenditore modello che Xi Jinping indicava l’anno scorso a Nantong: nelle parole dell’AD di Alibaba Danial Zhang riportate dal Scmp, “noi crediamo fermamente che se la società e l’economia [della Cina] vanno bene, allora anche Alibaba andrà bene. Siamo impazienti di fare la nostra parte per sostenere la realizzazione della prosperità comune”.

La motivazione politica di questa improvvisa svolta filantropica dei Big Tech è evidente, anche confrontando i beneficiari e l’importo delle donazioni degli anni precedenti. Le aziende cinesi che più temono la morsa regolatoria di Pechino stanno infatti cercando di accumulare crediti nei confronti delle autorità centrali, attraverso opere di filantropia attentamente concepite per sostenere le priorità politiche segnalate dal governo. Dagli investimenti nelle campagne al sostegno per i lavoratori precari e le piccole imprese, dalla lotta al cambiamento climatico all’impegno per l’educazione, le recenti donazioni si orientano infatti su quei progetti che più sono in linea con le direttive elaborate dal partito negli ultimi mesi.

La speranza ovviamente è che il contributo possa permettere ai Big Tech di presentarsi come attori critici nella realizzazione dei programmi politici di Xi e guadagnarsi così per lo meno un ammorbidimento dei provvedimenti regolatori.

Senza però sapere quale somma possa essere considerata sufficiente per evitare una nuova stretta, le aziende cinesi si sono lanciate in una competizione al rialzo a chi promette più risorse per la risoluzione dei molti problemi che affliggono la società cinese.

C’è però anche un’altra motivazione, probabilmente meno evidente ma ugualmente rilevante, ed è di tipo sociale. La percezione che negli anni i Big Tech si siano arricchiti senza però aumentare anche il benessere sociale è alla base del risentimento che vaste fasce della popolazione cinese, giovani in testa, hanno lasciato trasparire negli ultimi mesi in misura sempre maggiore. Anzi, talvolta i giganti tecnologici cinesi vengono additati come diretti responsabili delle difficili condizioni di vita e di lavoro in cui versano molti cittadini.

Esempio emblematico è stata l’esultanza osservata sui social cinesi quando l’IPO di Ant Group è stato bloccato. Riconquistare “le menti e i cuori” dei cinesi redistribuendo la ricchezza e promuovendo il progresso sociale è quindi un obiettivo altrettanto centrale della campagna filantropica dei Big Tech. Senza un’immagine pubblica di responsabilità sociale e senza un impegno per il benessere collettivo, le aziende tecnologiche cinesi si espongono al rischio di alienare i consumatori e perdere così la loro presentabilità di fronte ai cittadini della Repubblica Popolare.

La svolta filantropica, perciò, risponde a questo doppio meccanismo: da un lato il credito del partito, dall’altro l’apprezzamento dei consumatori. Le donazioni delle aziende possono essere considerate una sorta di capitale politico e capitale sociale, che la dirigenza aziendale investe per garantire il successo della propria impresa. Nella complessa partita giocata tra Big Tech e partito comunista la filantropia è diventata dunque un’arma sofisticata, usata dalle grandi aziende per assecondare le direttive del governo e allo stesso tempo tentare di proteggere – almeno in parte – le proprie attività.