La «politicizzazione» ha costituito la direzione dominante di tutto il Ventesimo secolo. Il suo andamento si è espresso in forme differenti a seconda dei periodi, il suo processo di radicalizzazione è correlato alle circostanze uniche di questa epoca, mentre il concetto di «sostituzione» (l’autore intende la necessità da parte cinese di inserire nella propria analisi storica elementi «alieni» alla cultura cinese, perché perno della catalogazione storica tipicamente occidentale, con i quali la storiografia nazionale cinese ha dovuto fare i conti, finendo per utilizzare talvolta concetti occidentali a periodi storici che i cinesi «conteggiavano» in altro modo Ndt) è stato uno dei fattori che l’ha permessa.

Dai tardi Qing, fino alla Rivoluzione Xinhai del 1911, la domanda chiave del paese verteva sulla tipologia statale e su quale forma di governo istituire; si sono così generati molti e diversi dibattiti politici su concetti quali «riforme» e «rivoluzione», sul nazionalismo o sulla necessità o meno di preservare una certa tipologia di ordine imperiale. Si è poi istituita una forma politica sotto lo slogan «Cinque etnie sotto un’unica unione» e si è gestito il complesso rapporto tra il nord e il sud della Cina. Ma il processo politico fondante di questo periodo è stato quello che ha visto passare attraverso una rivoluzione politica per occuparsi dei problemi del paese e formare un nuovo modello politico.

Questa è stata la prima ondata di «politicizzazione» del ventesimo secolo, ma se osserviamo tutta la sua evoluzione, dal punto di vista dell’esclusione alla partecipazione popolare, l’intento di questa mossa politica, volta a far crollare il vecchio sistema imperiale, è stata la «depoliticizzazione». In Cina si è voluto istituire, in ultima istanza, una nuova forma di governo che si adattasse all’epoca della sovranità imperiale. Un acceso dibattito si è focalizzato proprio sulla modalità per formare questo sistema di governo, dando spunto a qualsiasi tipo di scontro. Si è discusso di restaurazione e c’era chi si opponeva ad essa, esistevano altresì molte rivalità tra i diversi gruppi politici così come le lotte di potere tra le autorità centrali e tra l’aggrovigliato rapporto che finivano per intessere quest’ultime con le autorità locali; si è dibattuto poi sul sistema presidenziale e su quello parlamentare.

All’interno di questa ondata di «politicizzazione», sono esistiti sicuramente dei segmenti incompleti, tra cui possiamo contare la trasformazione dei legami politici del passato e quella dei rapporti economici. La questione, poi, relativa all’unificazione di tutta la Cina, non solo non si era risolta realmente, ma anche gli obiettivi sociali, ossia il conseguimento del «Principio del benessere del popolo» di Sun Yat-sen, era stato spostato ancor più in avanti, in un futuro molto lontano. Ma nonostante tutto, queste finalità erano divenute il credo e l’impulso del processo di «politicizzazione» dell’epoca. La seconda ondata di «politicizzazione» ritengo si sia propagata in Cina nell’arco di tempo che va dal 1915 al Movimento del 4 Maggio , dove invece il fulcro della questione era il problema della cultura. I problemi del paese, derivati dai processi politici precedenti, in questo periodo non erano ancora scomparsi, ma questa seconda fase ha posto la cultura e la civilizzazione, ma in particolar modo la cultura, come fulcro delle categorie di riferimento.

In altre parole, arrivati a questo punto, i problemi politici non si potevano risolvere esclusivamente all’interno della struttura statale, la politica necessitava nuovamente di passare attraverso la cultura per acquisire una nuova definizione. Se la prima ondata di politicizzazione era rivolta ancora a risolvere i problemi del Diciannovesimo secolo, la questione culturale già comprendeva contenuti completamente nuovi. Il «Movimento della nuova cultura» e il dibattito sulla cultura orientale e occidentale sono avvenuti all’interno di due contesti significativi. Da una parte la Prima guerra mondiale, dall’altra la crisi repubblicana cinese, ossia la difficoltà gigantesca emersa dal processo di costruzione dello paese. Queste due situazioni hanno costretto le persone a riflettere sulla presenza o meno di falle all’interno del percorso politico.

Era necessaria la ridefinizione della politica dato lo scontro che si stava perpetuando con i fruitori del nostro modello di conoscenza e di gestione della nostra tradizione, attanagliato in Cina da una profonda crisi.

Nel discutere di politica esclusivamente all’interno della struttura statale, si incappa nell’inevitabile rischio che la politica venga ridotta a politica parlamentare, di partito, militare, o a pragmatismo politico (la cosiddetta realpolitik).

LE QUESTIONI sorte dal movimento culturale, innanzitutto, sono state una riconsiderazione del modello occidentale o del modello del Diciannovesimo secolo e questa consapevolezza riguardava tanto il «Movimento della nuova cultura» quanto i suoi antagonisti: allo stesso modo la grande crisi che ne sarebbe emersa era preventivata da tutti quanti.
Tre erano le interpretazioni di base sulla Prima guerra mondiale, per cui, per ogni approccio, la guerra diveniva ora un conflitto tra paesi stato-nazione, ora un conflitto tra la civiltà (la democrazia) e l’ignoranza (l’autocrazia) ora, infine, una forma di guerra determinata dall’alienazione del conflitto sociale generato dal capitale e dal mercato. Queste tre spiegazioni indicavano le origini della prima guerra mondiale, ma contemporaneamente, questo tipo di analisi politica della storia europea, significava anche un’apertura a un’analisi politica rivolta alla Cina stessa. È come se a un certo punto ci si fosse domandati: la Cina che strada deve percorrere? E all’interno di questo dibattito è avvenuto il cambiamento della connotazione politica.
Prendiamo ad esempio Du Yaquan (importante editore e traduttore degli inizi del 1900): nonostante abbia rimesso in discussione il significato della forma governativa classica cinese e posto enfasi sull’importanza dello Stato e dei legami con il passato, ha comunque anche messo in dubbio il «politicismo» all’interno della stessa struttura statale (politica di partito e politica parlamentare).

LA «POLITICIZZAZIONE» del periodo del «Movimento del 4 maggio», in massima parte, era rappresentata dal problema della lingua (il movimento del cinese vernacolare), dalla letteratura (la «nuova letteratura»), dalla questione delle donne, del matrimonio, della liberazione individuale, dei giovani, del lavoro e dei contadini.
In origine, tutti questi problemi non erano considerati all’interno delle categorie politiche classiche, ma piuttosto venivano considerati problemi comuni della società.

Il «Movimento della nuova cultura» e l’intero «Movimento del 4 maggio» proprio per mezzo della cultura sono riusciti ad entrare in contatto con tutti questi problemi, concependo una politica nuova o ridefinendola.

Da questo momento in poi, abbiamo definito le domande che bisognava affrontare per risolvere i problemi della Cina; si trattava ormai di questioni espressamente politiche, oltretutto in un contesto in cui la politica non sarà più il problema di un singolo paese: sarà su questo piano che finirà per attuarsi il nuovo processo di politicizzazione.

Arriviamo così agli anni Venti e torniamo nuovamente a una mobilitazione politica su larga scala all’interno della struttura del paese, con la Spedizione al Nord della Prima guerra civile rivoluzionaria e con il primo Fronte Unito.

Ma, a mio parere, è stata la «rivoluzione rurale» a rappresentare una nuova tipologia unica di politicizzazione, nonostante il conflitto etnico, che finì per diventare un «costituente» di questo processo con lo scoppio della Guerra di resistenza contro il Giappone.
Ma la «rivoluzione rurale» non si è mai interrotta. Giungiamo, infatti, direttamente alla parte finale degli anni Quaranta. Siamo partiti dalla mobilitazione delle città e delle campagne della Spedizione al Nord, abbiamo assistito al suo fallimento e poi all’istituzione dei Soviet in territorio cinese.

Questo periodo storico ha prodotto e alimentato la «guerra popolare di lunga durata», fenomeno che ha finito per coinvolgere l’assoluta maggioranza della società all’interno di questo moto alla «politicizzazione».

MAO ZEDONG nel «Rapporto d’inchiesta sul movimento contadino nello Hunan», ha affermato: «La Rivoluzione nazionale ha bisogno di una grande trasformazione delle zone rurali, la Rivoluzione del 1911 è fallita perché questo processo non è avvenuto». Mao Zedong con il termine «nazionale» indicava la popolazione contadina superiore al novanta per cento; quella popolazione che, all’interno delle zone rurali, solamente all’interno di questo contesto ha finito per essere effettivamente coinvolta all’interno del processo politico.

Per questo motivo, la cosiddetta «guerra popolare di lunga durata», non è una categoria descrittiva, bensì può essere considerata e riconosciuta come una vasta e profonda categoria politica.
Si è definita come «guerra» ma non sarebbe più stata una comune lotta armata, sebbene il contesto di base fosse quello. La guerra popolare prevedeva d’altronde la costruzione di un potere politico, di basi operative, necessitava di strutture organizzative di partito, di movimenti di massa e altro ancora.

Il cosiddetto concetto «dalle masse alle masse» ha permesso una graduale integrazione tra il partito in stile sovietico e il popolo. Per questo, quando affermo che la guerra popolare ha trasformato il partito, mi riferisco ancora al Partito comunista, ma la trasformazione a cui faccio riferimento implica il cambiamento di rapporto a livello globale tra partito e società.

LA GUERRA POPOLARE ha anche trasformato le forze armate, come forza politico-militare che ha finito per determinare un suo inserimento organico nelle relazioni socio-economiche e politiche. Era un momento di grande cambiamento riguardo la partecipazione politica e i movimenti politico-culturali.
Un altro risultato della «guerra popolare» è stato partire dalla cultura del paese e dalle sue tradizioni, come sorgente primaria e poi trasformarla nel «Movimento della nuova cultura». La «guerra popolare» è stata una modalità politica unica, il cui modello di mobilitazione a livello politico si è formato proprio in questo contesto. Il suo retaggio, infatti, arriva fino ad oggi.

Ad esempio, le modalità di soccorso durante le alluvioni e i terremoti sono derivate da quella tradizione, sebbene le prerogative e le condizioni siano completamente diverse.
Qualcuno oggi sostiene che il rapporto tra le masse e i quadri di partito possa essere considerato come una sorta relazione antitetica, in opposizione, come il rapporto che si finisce per instaurare tra lo stato e le maglie della burocrazia. In verità, il modello relazionale tra massa e quadri si basa precisamente sul rifiuto del sistema burocratico (non importa se ci riferiamo a un sistema burocratico tradizionale o a un sistema burocratico delle classi capitaliste), ma anch’esso può essere visto come il risultato della guerra popolare.

IN ORIGINE IL PARTITO COMUNISTA, come organizzazione, non faceva menzione della relazione tra masse e quadri. Solamente quando il movimento comunista, all’interno del processo determinato dalla guerra popolare, ha organizzato all’interno di una stessa grande categoria la produzione, la vita, la politica e l’educazione, è nata la cosiddetta questione del rapporto tra i quadri e le masse come siamo abituati a considerarla.

Le opere di Ding Ling, Xiao Jun e Zhao Shuli contengono critiche nei confronti del cambiamento di rapporto tra i quadri e le masse, visto come tema molto delicato. Oltretutto, il punto di partenza di queste critiche consisteva esattamente in un parametro intrinseco della relazione, ossia una visione critica della rivoluzione dal suo interno. Sebbene oggi questo rapporto possieda delle peculiarità del sistema burocratico, dobbiamo comunque fare un’attenta distinzione: in principio il rapporto tra le masse e i quadri era caratterizzato da un’alta «politicizzazione», invece oggi il rapporto con il sistema burocratico prevede al contrario proprio un’elevata «depoliticizzazione».

OLTRE ALLA «GUERRA POPOLARE» e il periodo della Guerra di Resistenza contro il Giappone, il Fronte Unito è stato un altro processo di «politicizzazione». Se ne è parlato in Occidente e all’interno dell’Internazionale Comunista, ma con Mao Zedong in «Sulla contraddizione», dove vengono analizzate la contraddizione principale e le contraddizioni secondarie, l’aspetto principale e quello secondario, il punto di partenza fondamentale è quelloo di generare un cambiamento di rapporto con gli alleati, o fra noi e quelli che erano i nostri nemici, e nella modalità di contraddizione esistita precedentemente. Significa creare un processo di «politicizzazione» in continua trasformazione e non ridurre la politica ad un discorso di natura sostanziale.

In questo modo, la borghesia nazionale a un tratto è divenuta un amico fidato, in opposizione all’invasione imperialista, divenendo «popolo» e costituente organico di questo «noi». Inoltre, la «politicizzazione» degli anni Trenta e Quaranta trovava espressione all’interno della sfera culturale. Qualsiasi espressione nazionale, popolare e tradizionale è stata chiamata in causa per la creazione di una nuova politica, concentrandosi sulla rivoluzione rurale e sulla guerra popolare.

La cosiddetta «guerra popolare», in realtà, è stata una guerra di resistenza nel senso comune del termine, ma è diventata una rivoluzione se decidiamo di considerarla alla stregua di una guerra di liberazione nazionale, e per questo ha goduto di un’alta «politicizzazione» a livello sociale e su vasta scala. Per essere esatti, la connotazione politica della guerra popolare fungeva da contrasto proprio con quei paesi europei e con il Giappone che ponevano il concetto di «nazione» come sommo scopo per una guerra globale. L’esperienza cinese vuole vedere la guerra popolare sconfiggere la guerra globale imperialista. In seguito, invece, la Guerra di Corea con la Cina in funzione anti-americana, già conteneva degli elementi chiave per essere definita guerra di difesa nazionale. La mancanza di basi nel proprio territorio e ritrovarsi spostati fuori dai confini, finivano per essere due caratteristiche in grado di segnare le differenze con la guerra popolare, mentre il principio dell’internazionalismo segnava la guerra tra gli alleati.

LA DISCUSSIONE CENTRALE del movimento socialista e internazionalista del Diciannovesimo secolo verteva sull’alleanza delle classi sociali, ma con il sorgere di paesi socialisti, come l’Unione Sovietica e la Cina, fu l’internazionalismo a divenire gradualmente una forma di coalizione. Inoltre lo schema bellico della Guerra di Corea con la Cina in funzione anti-americana ad ogni modo, implicava anche il collasso della struttura della Guerra fredda.

E in questo caso arriviamo a parlare del ruolo fondamentale che ebbe la Cina nel Ventesimo secolo. Partendo dalla Guerra di Corea fino ai trattati di Ginevra, per poi arrivare anche alla Conferenza di Bandung, è apparsa gradualmente una nuova categoria del «Terzo mondo non socialista», che sorpassava il bipolarismo determinato dall’accusa o dalla difesa della Guerra fredda.

Come nel periodo della Guerra di resistenza contro il Giappone con la politicizzazione del Fronte unito, «l’unità» dei paesi del terzo mondo non era più solo un’alleanza tra i paesi socialisti. Molti di questi sistemi non lo erano, ma trovandosi sotto l’oppressione dell’imperialismo e del colonialismo globalizzato, hanno formato alleanze per opporsi insieme all’egemonia occidentale. Alla fine degli anni Cinquanta e durante gli anni Sessanta, con lo sviluppo della crisi sino-sovietica, la struttura bipolare presente in origine ha avuto un chiaro cedimento.

La Cina e l’Europa di quegli anni si somigliano per qualche aspetto, nonostante l’intensa opposizione in Cina alle classi capitaliste e al capitalismo occidentale. In ogni caso comunque il risultato politico cinese fu l’allontanamento dal socialismo sovietico, nella prospettiva di combattere e prevenire il revisionismo.

NELLO STESSO MODO L’OCCIDENTE negli anni Sessanta si trovava tra l’opposizione anti-capitalista e l’opposizione nei confronti dell’Unione sovietica. Questo comune adeguamento tra la Cina e l’Occidente ha portato la guerra fredda al collasso.

Anche l’esplosione della Rivoluzione Culturale possedeva una corrispondenza con i movimenti studenteschi degli anni Sessanta in Europa, in America, in Giappone e in altri paesi ancora, con i movimenti di protesta contro la guerra e quelli di liberazione nazionale dei paesi non occidentali. In questo vasto contesto, durante gli anni Settanta, a Taiwan ha preso piede il movimento per la difesa delle isole Diaoyu.

Chi partecipava a questo movimento costituiva e rappresentava la seconda generazione del Partito nazionalista, che dagli Stati uniti aveva deciso di tornare in patria. È la prima volta dalla divisione del 1949 (tra Cina e Taiwan) che qualcuno rompeva il vecchio schema divisivo tra Partito comunista e Partito nazionalista per cercare una nuova riconciliazione e segnare l’inizio di una nuova politica.

LA FINE DELLA GUERRA FREDDA, a mio parere, non è stato un singolo evento, non è stato il Summit di Reykjavík o gli ultimi stadi dello smantellamento dell’Unione sovietica orientale, ma bensì un lungo processo che possiamo considerare iniziato negli anni Sessanta e che è terminato solo nel 1991.
Se non ci fosse stato il cedimento cinese all’interno del cosiddetto blocco orientale, sarebbe stato difficile immaginarsi questo cambiamento, nonostante la destra e la sinistra abbiano opinioni diverse su questo processo.

L’ULTIMA ONDATA di «politicizzazione» del Ventesimo secolo ci porta a questo periodo, per poi scomparire quasi del tutto. Ma c’è bisogno di un discorso specifico per quel che riguarda i fattori e l’andamento della Rivoluzione culturale e sulla tragedia avvenuta in tutto questo periodo. La Rivoluzione Culturale è stato un movimento che ha messo in atto una forma di «auto-rivoluzione» all’interno di un paese socialista; allo stesso tempo ha rappresentato uno scontro molto intenso tra il duplice scopo e la duplice direzione del movimento e visto che l’obiettivo iniziale non era stato raggiunto, sono rimaste aperte molte sfide irrisolte.

La Rivoluzione culturale è avvenuta in un contesto molto peculiare: nonostante il Partito comunista cinese fin dagli inizi degli anni Trenta avesse istituito dei governi locali nelle aree di confine, dobbiamo ricordare che prima del 1949 in Cina non esisteva uno stato socialista e il Partito comunista non era al potere. La Rivoluzione culturale è stata una rivoluzione interna diretta nei confronti del partito rivoluzionario e dello stato socialista. In questo senso, sebbene i valori di base e la logica contenuti nell’obiettivo radicale «rivoluzionario» siano passati attraverso la storia del Ventesimo secolo, le sue implicazioni e il modo di espressione sono estremamente diversi.

In realtà, c’è stato fin da subito un rapporto molto intricato tra la macchina dello stato socialista e la logica della Rivoluzione culturale. È nato rapidamente un rifiuto sulle Comuni e una delle ragioni è stata la difficoltà di gestione dei problemi di difesa nazionale, degli affari esteri o le questioni relative al simbolo della nazione, e tanto altro ancora, visto che le Comuni erano state istituite dal basso verso l’alto. Quando la struttura dei rapporti internazionali poggiava ancora su un sistema di sovranità, era inevitabile che ci fossero delle contraddizioni tra la politica radicale della Rivoluzione culturale e le funzioni base dello Stato.

In realtà il declino della Rivoluzione culturale, vista come energia di movimento, fu molto repentino: anche questo evento potrebbe essere in stretta correlazione con il cambiamento della situazione internazionale.

NEL 1969 IL DIBATTITO POLITICO sino-sovietico ha cambiato direzione, divenendo un conflitto militare nelle zone di confine. Il processo politico interno al movimento comunista e la lotta tra le due linee del partito avevano ormai vita breve e vennero rimpiazzate da diatribe di interesse statale o nazionale, dove ognuno rimaneva fermo sulle proprie posizioni.

In passato, concentrarsi sull’Unione sovietica non era solamente una questione egemonica, perché implicava anche tutta una serie di teorie interne al socialismo e problemi di linea politica che la trasformazione dell’Unione sovietica si trascinava con sé. Dopo il 1969, tutte le questioni si sono ridotte a problemi di interesse nazionale (alla «ragion di stato»), portando al venir meno del percorso di «politicizzazione». Ovviamente, il complesso processo politico non si sarebbe fermato a questo punto, infatti parliamo di una storia politica accaduta all’interno di una soglia critica che prevede sia la trasformazione delle relazioni politiche internazionali sia in relazione a un nuovo movimento interno alla Cina, con la peculiarità dei movimenti democratici o illuministi. Le prime opposizioni alla Rivoluzione culturale sono gradualmente decadute in lotte intense tra fazioni, preparando, passo dopo passo, le condizioni per un «ritorno all’ordine» del partito e dello Stato. Nel Ventesimo secolo, la forza della «depoliticizzazione» ha coinvolto la parte interna di tutti i percorsi, di conseguenza la «politicizzazione» prevede la «depoliticizzazione».

Lo abbiamo visto nella «rivoluzione nazionale», nella «rivoluzione rurale», nel movimento della cultura, nella Rivoluzione culturale, nella lotta politica e nella lotta alla produzione: il centro di ogni movimento politicizzato implica, in un’intricata relazione, la tendenza alla «depoliticizzazione».Ma c’è un punto determinante: la politicizzazione non equivale ad un inasprimento cieco e irrazionale.

IL FRONTE UNITO, la riconciliazione tra Partito nazionalista e comunista e la struttura anti-Guerra fredda nella sfera internazionale, sono state tutte forme di «politicizzazione».
L’opposizione rigida e intollerante e il pensiero polarizzato coincidono esattamente con la «depoliticizzazione», perché lo spazio politico viene meno e scompare. Quindi posso solo affermare che l’ultima sconfitta politica degli anni Sessanta è stata – per un determinato livello – il risultato della «depoliticizzazione», che si è venuto a creare a causa dello svilupparsi di un’intensa polarizzazione.

L’eredità del Ventesimo secolo è molto importante e variegata, ma le difficoltà che ci ha lasciato sono enormi.
Queste difficoltà hanno preso forma tra le gigantesche trasformazioni a livello globale del Diciannovesimo e Ventesimo secolo. A tutt’oggi siamo di fronte a una duplice struttura che vede da un lato il riflusso del Ventesimo secolo e dall’altra parte l’obbligo, la necessità di dover affrontare una crisi enorme, per aver negato la tendenza alla globalizzazione apparsa come assetto di questo secolo.

IL FENOMENO CULTURALE visibile ovunque vede le persone interrogarsi sul come poter narrare nuovamente la propria storia e vede nutrire speranze nel ritorno ad un certo tipo di tradizione. Come fare ritorno, se è possibile fare ritorno e a cosa fare ritorno, sono divenute tutte questioni estremamente difficili alla fine del «breve Ventesimo secolo».
L’indomabilità del Ventesimo secolo è già un fattore chiave insito in questa epoca. Come affrontiamo questa eredità a cui non possiamo sottrarci? Come decidiamo, per un certo livello, il metodo di riflessione sulle difficoltà di oggi e quali decisioni prendiamo per arrivare ad una soluzione?
Per quanto riguarda la Cina, i problemi del Ventesimo secolo sono, per la prima volta, la risposta della storia globale alla sua propria storia, il cui significato è nascosto in fondo al fallimento. In questo senso possiamo comprendere l’assunto: «le basi sono già state poste».

(Traduzione di Désirée Marianini Torta)

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Wang Hui è professore alla prestigiosa università Tsinghua di Pechino. Nato nello Jiangsu nel 1959, già studioso all’Accademia Cinese di Scienze Sociali, nonché direttore – dal 1996 al 2007 con Huang Ping – della prestigiosa rivista cinese Dushu (Reading). Foreign Policy nel 2008 lo ha inserito tra i cento intellettuali più famosi al mondo. Wang Hui costituisce sicuramente uno dei teorici politici più interessanti della Cina contemporanea per il suo tentativo di concepire una visione di sinistra dalla prospettiva cinese, rivalutando tratti del pensiero di Mao, ridefinendone altri. Tra le sue opere, China’s New Order: Society, Politics, and Economy in Transition (2003), «From An Asian Perspective: The Narrations of Chinese History» (2010), i quattro volumi tra il 2004 e il 2009 di «The Rise of Modern Chinese Thought», per arrivare all’ultimo libro «China’s Twentieth century» pubblicato nel 2016.