Sulla locandina che Chris Ware, protagonista indiscusso del graphic novel americano, ha disegnato nel 2012 per una conferenza all’Università di Chicago sta scritto: «Rovinati la vita: disegna fumetti». Tra i personaggi del suo graphic novel Rusty Brown (Pantheon Books, pp. 356, $ 35.00) il cui primo volume è appena uscito negli Stati Uniti, compare un insegnante d’arte fallito e di dubbia moralità di nome Ware: «Mi serviva un personaggio discutibile», ha detto l’autore, «e ho scelto me». Nelle sue opere il fumettista è sempre invidioso, triste, frustrato, consapevole che il suo lavoro non sarà mai ricompensato dal successo o dal prestigio sociale di cui godono i letterati. Nessuna sorpesa, dunque, se tra le pagine dei libri di Ware la parola più usata è apologies, quasi a scusarsi (seppur in maniera ironica e provocatoria) per l’inadeguatezza del medium prescelto.

In realtà, la retorica del fallimento impiegata da Ware, così come le sue riflessioni sul ruolo dell’artista nel panorama contemporaneo, lo inseriscono in una tradizione letteraria che vanta precedenti illustri in America e che mira a svelare la precarietà del cosiddetto sogno americano. L’estrema complessità strutturale delle tavole, l’attenzione maniacale al dettaglio e la molteplicità dei punti di vista delle sue opere hanno spinto i critici ad accostare il graphic novel Jimmy Corrigan, il ragazzo più in gamba sulla terra (2000) ad alcuni capolavori modernisti.
Ware dialoga di continuo con la grande letteratura escogitando equivalenti grafici delle più importanti tecniche letterarie: ad esempio riproduce graficamente il flusso di coscienza attraverso complicati diagrammi che ricalcano i processi mentali dei personaggi. Il realismo drammatico delle sue storie è ottenuto con un tratto iconico e schematico che a prima vista può apparire freddo, ma che grazie a una peculiare alternanza di colori e forme ricorrenti e a una simmetria di tavole in continuo dialogo tra loro si rivela un eccezionale mezzo di trasmissione emotiva: «Cerco di spalmare sulla pagina l’esperienza e la memoria – ha detto – in modo che il lettore possa vedere, sentire e percepire quanto più possibile».

Merito di Ware è aver sovvertito l’interazione tra parole e immagini alla base del fumetto, ampliandone enormemente le potenzialità: Building Stories (2012), opera ibrida composta da quattordici lavori grafici di stile, materiale e formato differenti senza un ordine preciso di lettura, mette in crisi la famosa definizione proposta da Scott McCloud del fumetto come «arte sequenziale», esponendo il lettore a percorsi casuali o soggettivi che rappresentano l’equivalente grafico dello stream of consciousness, senza punteggiatura o sintassi. Rusty Brown dimostra una volta di più la capacità del fumetto di mettere in scena l’arte struggente della memoria: Ware parte dalle proprie reminiscenze d’infanzia per raccontare la storia di un singolo giorno d’inverno del 1975 attraverso le esperienze e i ricordi di sette diversi personaggi in una scuola elementare. È convinto che «noi umani abbiamo un superpotere straordinario, quello di vedere con gli occhi chiusi; ne facciamo esperienza quando sogniamo o leggiamo un romanzo tradizionale, cessando di vedere le parole sulla pagina e ‘guardando’ invece le immagini suggerite dalla nostra immaginazione».
Nel ritmo quasi musicale che scaturisce dai gesti e dai movimenti dei personaggi, dalle dimensioni e dalla forma delle vignette, dalla loro disposizione nella pagina e infine dal percorso compiuto dall’occhio, i fumetti di Ware riproducono la nostra esperienza della realtà attraverso un’ampia gamma di impressioni concomitanti, «simulando la percezione del presente attraverso gli strumenti della memoria».